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lunedì 10 settembre 2012
lo chateau de Grignan e la marquise de Sévigné.
Il castello di Grignan lo vedete senz’altro passando, anche dall’autostrada. Alto su un picco roccioso, costruzione massiccia e eccessiva. Lì c’era già un castello dal XII° secolo, una fortezza della famiglia Adhémar; nel XVII° secolo un François della stessa famiglia, nominato da Luigi XIV governatore di Provenza e destinato quindi a risiedervi, si mette a trasformarlo in una residenza fastosa ed enorme spendendo sconsideratamente troppo. Che spenda troppo, lo sappiamo già dalla suocera, la marquise de Sévigné; aveva ragione, l’impresa rovinò il marchese. Per non parlare degli spifferi: per quanto ci si intabarri, dice la marchesa, nelle invernali giornate di mistral si gela ovunque, nell’esposto chateau dalle ampie terrazze panoramiche.
Grazie a dio si faceva bonne chère , vi si teneva una buona tavola, cosa alla quale la marchesa teneva assai.
Mais puisque nous y sommes, parlons un peu de la cruelle et continuelle chère que l'on y fait, surtout en ces temps ci. Ce ne sont pourtant que les même choses que l'on mange partout. Des perdreaux, cela est commun, mais il n'est pas commun qu'ils soient tous comme lorsque à Paris chacun les approche de son nez avec une certaine mine, et criant:" Ah! quel fumet! Sentez un peu. "Nous supprimons tous ces étonnements. Ces perdreaux sont nourris de thym, de marjolaine, et de tout ce qui fait le parfum de nos sachets; il n'y a point à choisir (...)
Pour les melons les figues et les muscats, c'est une chose étrange: si nous voulions, par quelque bizarre fantaisie, trouver un mauvais melon nous serions obligés de le faire venir de Paris; il ne s'en trouve point ici. Les figues blanches et sucrées, les muscats comme des grains d'ambre que l'on peut croquer, et qui vous feraient fort bien tourner la tête si vous en mangiez sans mesure, parce que c'est comme si l'on buvait à petits traits du plus exquis vin de Saint-Laurent (...)
Lettre de Mme de Sévigné à Coulanges, 9 septembre 1694
Del resto non ci soggiornò molto a lungo, se si pensa che la figlia stette al castello trenta anni e la marchesa ci andò per soli tre soggiorni, per quanto lunghi, l’ultimo terminato con la sua morte. Eppure oggi il castello è famoso grazie a lei, soprattutto. Poiché alla figlia scrisse durante questi trenta anni tre quattro lettere alla settimana, che dettero alla marchesa imperitura gloria. Ed è per lei, fondamentalmente, che ci sono andata; per la marchesa ho un debole dall’epoca di un certo soggiorno al Marais. Me ne stavo nel suggestivo sottotetto, diventato amabile piccola casa, di un Hotel Particulier prossimo all’Hotel Carnavalet dove la marchesa abitò; mi dedicai alla lettura di lettere e biografie su di lei.
Il castello di Grignan fu condannato alla demolizione un certo 11 nevoso anno II, ovvero il 31 dicembre 1793, dal distretto di Montélimar dal quale dipendeva. Se vi chiedete perché, basterà che riflettiate su quel nevoso: la Rivoluzione faceva ancora sentire i suoi effetti. Distruzioni e vandalismi riuscirono a sboccoccellarlo in modo consistente, nonostante l’immensa mole. Strane vicende e possessi si susseguirono; chi ne ha sentito parlare, sarà curioso di sapere che appartenne per un breve periodo anche a Boni de Castellane, il dandy contemporaneo di Prust, il grande ammiratore della marchesa. Poi iniziarono le ricostruzioni, molti anni dopo; in particolare, grazie a una certa Marie Fontaine che lo acquistò nel 1912, che spese una fortuna per rimetterlo su come poteva e sulla quale ho trovato poche o nulle notizie.
Attualmente il castello è di proprietà del consiglio generale della Drôme, che lo gestisce scostumatamente come una delle principali attrazioni turistiche delle regione, calcando un po’ la mano. Da questo deriva la bizzarra visita cui abbiamo preso parte. Un bel giovine dell’aria medio orientale ci ha guidato entro un gruppo di altri intrappolati – solo visite guidate - in un giro interminabile, facendoci, con ampi gesti e voce squillante, oggetto di lunghe spiegazioni sconcertanti alle quali non potevamo sfuggire, nelle quali si ostinava a farci credere che stessimo vedendo un castello rinascimentale in tutto il suo splendore, mentre camminavamo entro stanze che mostravano il vuoto e il rabberciamento che un tale gigante costoso non può non mostrare dopo anni di devastazioni e impossibili ricostruzioni. L’effetto di tali discorsi era stupefacente: invece di ricreare le passate glorie, vanificavano l’intricato presente, che rischiava di svanire sotto l’incantesimo delle parole dell’instancabile guida, provocando la reazione: “ma qui non c’è più nulla!”.
Già, l’intricato presente: non il nulla che il mago-guida evocava davanti a noi rischiando di incantarci facendoci vedere il vuoto, ma ciò che restava dell’immenso passato barocco, le vistose tracce della sua distruzione e dispersione, la ricostruzione bizzarra, avventata e generosa di Marie Fontaine, della quale ci è stato detto così poco, ma che era una delle presenze più forti, e sulla cui impresa siamo rimasti insoddisfatti curiosi. Una storia dalle molteplici tracce e certamente assai interessante che non ci è stata, haimé, raccontata.
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giovedì 28 giugno 2012
La bête de Gevaudan.
Mentre ci addentravamo nel massiccio centrale, a una svolta di strada abbiamo incontrato la statua della bête de Gevaudan.
Forse l’ultimo mostro medioevale, e uno dei primi esempi che io conosca di un evento massmediatico, che le semplificanti necessità retoriche della nascente stampa sensazionalista – XVIII secolo - hanno contribuito a creare.
All’epoca di Luigi XV, nelle terre marginali, nevose, povere, scarsamente abitate, selvatiche del massiccio centrale della Francia, terre ancora dentro un’amministrazione feudale, si verificarono diverse morti violente, soprattutto di fanciulli e fanciulle, qualcuno di donna e nessuno di un uomo adulto. I cadaveri, straziati da profonde ferite, vennero ritrovati nei campi gelati, e le morti vennero collegate a un lupo di grandezza e ferocia innaturali, cui venne data una caccia eccezionale alla quale parteciparono anche le milizie del re.
Badate bene, molti furono anche i testimoni sopravvissuti. Ma se mai ci fosse ancora bisogno di verificare quanto sia difficile constatare qualcosa con i propri occhi, se tali occhi non sono supportati da opportune e condivise convenzioni su ciò che si sta vedendo, il caso della bête de Gevaudan si presterebbe benissimo. Quindi, molti testimoni, e nessuna certezza su ciò che si stava vedendo. Uomini lupo? Licantropi? Delinquenti perversi mascherati da animali mostruosi? Animali imprevedibili, enormi linci, ibridi di lupi e molossi, perfino tigri? Tutto è stato ipotizzato, supposto, discettato. E ogni ipotesi, fino ad oggi, è stata rifiutata come conclusiva.
Cacce confuse quindi, dall’esito incerto. Non si sapeva chi si stesse cacciando, né se lo si uccise; ci fu la morte di un paio di grandi lupi, che però lasciò in vita tutti gli scetticismi. Gli eventi restarono avvolti nell’incertezza e nei fumi di nebbiose e sinistre fantasie. Continuava a vivere nella fantasia alimentata dalla stampa un mostro animale, oppure un mostro umano, o meglio una combinazione dei due; si sospettò l’intervento di una sorta di principe balcanico locale assetato di sangue di fanciulli, si accusò la spietatezza dei luoghi e delle condizioni in cui vivevano quelle genti montagnose, si suppose la responsabilità di una violenta famiglia locale, che avrebbe dovuto essere dalla parte dei cacciatori e che invece poteva essere l’anima e il ricettacolo della belva, si disse pure che si trattava di una cospirazione governativa contro le genti del posto, non sufficientemente monarchiche.
Gli eventi produssero molta stampa, non solo in Francia ma anche in Inghilterra, dove si prese adeguatamente in giro un re che non riusciva a catturare la bestia con la sua armata. Ciò provocò una censura sugli eventi che arrivò al fatto che nei registri delle parrocchie non si poté più scrivere che si seppelliva qualcuno ucciso dalla bête; censura che, combinata con le “notizie” riportate dalla stampa che non rinunciavano al mostro, contribuirono a confondere definitivamente le piste e a sollecitare la credenza in una indefinibile, suggestiva e alla fine intoccabile creatura non umana, sovrumana. Vennero pure prodotte molte immagini che ancora oggi spaventano per l’incantamento possono suscitare attraverso la commistione di crudeltà e sessualità sanguinosa.
La nostra tappa a Saugues nell’Auvergne, al centro del territorio che fu percorso dalla bête, e la visita nell’edicola – libreria locale ci fa scoprire che ancora oggi ancora si discetta su cosa successe senza venire a capo di nulla, incerti tra bestie e uomini, e anche se molti sospetti vertono su questi ultimi, nell’iconografia vince senz’altro la più pittoresca, immaginifica bestia. Tanto pittoresca e tanto immaginifica da venire assunta come icona del posto, e proposta nei fumetti per i bambini come in numerosi libri che continuano ad essere venduti ai viaggiatori che passano di lì.
Le immagini, da betedugevaudan.com
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