martedì 12 giugno 2012
Juana Inés de la Cruz. Una sicura poetessa e un'improbabile cuoca
Molti di noi – io per esempio – di lei non ne sanno un accidenti, poiché spingere lo sguardo entro foschie lontane come le letterature latino americane, peggio ancora se femminili e barocche, è cosa veramente avventurosa e stravagante. Tuttavia, san web ci dimostra, se cerchiamo notizie di tal Juana Inés de la Cruz, che la rete pullula di celebrazioni e rimembranze di questa donna, famosa – si scopre – per ricchi e molteplici talenti e pateticità romantica e drammatica di vita, tutte cose che non guastano quando si vuole passare ai posteri.
A me per altro Juana era già arrivata per un’altra via, un libretto dono dell’amico GianniM che ancora ringrazio.
Angelo Morino, Il libro di cucina di Juana Inés de la Cruz, Sellerio, Palermo 2000.
Si tratta di un libretto Sellerio – e chi sennò – che presenta una strana mescolanza tra due anime.
Da un lato c’è la trascrizione del XVII secolo di un libro di cucina che forse è del secolo precedente. E’ un libro di un convento messicano, anzi più che un libro un insieme di appunti, che riporta ricette buttate giù alla buona, dove si intuiscono macchie di burro e patacche di rosso d’uovo. Le ricette grondano di dolci speziati e profumati, di mandorle e cannella, di confetti colorati, e portano con sé, nonostante lo stile scarno e approssimativo delle note scritte in fretta, puro pro memoria anche un po’ sgrammaticato, l’irresistibile aura fascinosa della cucina di convento femminile, dove tanti dolci si tramandarono, covarono e nacquero e tante tradizioni si ritesserono attraversando spregiudicatamente religioni e culture diverse.
Dall’altro c’è un piccolo saggio su Juana, che in quello stesso convento fu monaca, scritto con lo stile della noterella affettuosa dal traduttore Angelo Morino, professore di letteratura latino americana.
Nel saggio Morino si trova con due oggetti, le ricette da un lato, la vita di Juana e le sue opere dall’altro, che si incrociano alquanto pretestuosamente, e si adopera a metterli insieme.
Qui non si capirebbe più una parola, però, se non si fa breve premessa su Juana. Bambina illegittima e insieme bambina prodigio, che prestissimo a da autodidatta (l’unico modo allora concepibile per una femmina) si appropria di una quantità di saperi a vasto raggio, fino a diventare una novella Caterina d’Alessandria. Nota nella sua epoca, non solo in Messico, per scienza, brillantezza di ingegno e virtuosismo appassionato nel versificare, viene introdotta da intima e pupilla di viceregine nella corte dei vicerè. Come Caterina, tuttavia, è a rischio elevatissimo di diventare santa mediante taglio della testa per via delle diffidenze e rabbie e invidie che tale eccezionale femminile percorso suscitò. Dopo un periodo privilegiato in cui scambiava doni con le viceregine, e con una in particolare con cui si amò così ardentemente da mettere in imbarazzo tutti (forse più oggi che allora, però), tornate le sue protettrici in Spagna, venne presa nelle grinfie di vescovi che non la mollarono fino a che, dopo strenua, brillante a tutt’oggi ammiratissima letteraria difesa, lei non capitolò su tutta la linea, firmando la lettera del suo pentimento con il suo stesso sangue e disperdendo la ricca biblioteca – una delle più cospicue del suo paese – per venderla a favore dei poveri. L’accusa era di scrivere di cose profane, cosa nella quale la nostra per altro tanto si distinse da essere considerata il maggior poeta barocco del Messico e uno dei massimi di tutte le epoche per quel paese.
Ancora non ho detto, però, tutto ciò che serve. Torniamo alle vicende della sua vita. Juana non volendo sposarsi e nella speranza di trovare un rifugio tranquillo, a sedici anni andò in convento a farsi suora e lì visse fino alla morte, per ventisette anni. Un convento confortevole e pieno di chiacchiere, come ce n’erano allora. Ogni monaca aveva una casetta con tutti i servizi e volendo portava con sé, come Juana fece, una schiava. C’era inoltre un vasto personale di servizio in comune che moltiplicava le presenze e faceva di quei conventi cittadelle femminili piene di visite, di conversazioni e di ricevimenti a base di dolci. Lei un po’ si scocciava perché a quanto pare voleva starsene sempre a scrivere e studiare, tuttavia ci stette bene, credo, finché ci furono le sue viceregine con cui farsi le visite scambiare doni. Le viceregine non so cosa le mandassero, ma lei mandava rose appena colte e qualche volta anche torte, per esempio di noci. Tutto, ovviamente, accompagnato da scintillanti poesie.
Una volta Juana scrisse che le donne non possono fare che filosofie di cucina, ma disse anche che se Aristotele avesse cucinato, avrebbe scritto di più.
Questa battuta era rivolta a un uomo nemico. Si tratta del cattivissimo vescovo che, andate via le viceregine amiche sue, si era buttato su di lei con quell’accusa di trasgressione che in seguito avrà grande efficacia, portandola alla dichiarazione di pentimento e al silenzio. Qui però Juana ancora si difende. E sfida il vescovo a pensare spregiudicatamente (massimo peccato per un vescovo). Mettendo insieme Aristotele il sommo e la bassa pratica di cucina affidata alle donne, proponeva al vescovo – quanto è barocco tutto ciò – che la congiunzione trasgressiva e sorprendente avrebbe giovato a rendere più frizzante il pensiero dell’eccelso filosofo, più produttivo il suo calamo. C’era anche l’allusione non tanto velata che un contributo di umile donnità (lei) proposta provocatoriamente come odorosa di fritti, intrisa di cucina, alla superba mascolinità (Aristotele, ma anche il vescovo) avrebbe certo giovato a quest’ultima.
Vediamo se dopo tutto questo premettere posso tornare al libretto di Sellerio dove Morino tenta di tenere insieme ricette e poetessa.
Che materiale si trova davanti Morino? Una certa tradizione dice che il libro di ricette fu scritto da Juana, c’è pure un poemetto attribuito a lei per introdurlo e la sua firma a concluderlo. Ma l’epoca del manoscritto non è quella di Juana, è stato scritto cento anni dopo. Le ricette sono veramente pochissima cosa se considerate nella loro scrittura, e lo stesso poemetto zoppica, come mai gli autografi della nostra. Soprattutto Juana era non solo raffinatissima scrittrice, ma, lo deduciamo da ciò che lo stesso Morino ci dice, massimamente snob. Ce la vedete a scribacchiare trasandate notarelle di farina e di uova senza nemmeno pensare alla grammatica?
Marino aveva due strade, a quanto posso capire.
Una era quella di fare un’analisi del perché nasce una tradizione che rifila le ricettuzze a Juana. Un’ulteriore mortificazione dell’altezzoso spirito? Una manovra degli eredi dell’invidioso vescovo? Avrebbe avuto un bel romanzo da fare, e forse una ricerca negli archivi. Però, si chiude questa via dicendo che dopo cento anni dalla morte, quando viene scritto il libro di ricette, Juana era dimenticata; chi poteva avercela con lei?
L’altra era quella di sostenere la possibilità di attribuire il libro di ricette alla coltissima suora. Questa è la strada che Marino sceglie. Ci dice che forse, giocando con le consorelle, rilassandosi in qualche pomeriggio di ozio, Juana potrebbe aver copiato le ricette, così, per scherzo. Aggiunge che è vero che sono mal scritte, ma che alla fin fine la nostra era autodidatta; qualche erroraccio, qualche sgrammaticatura le poteva pur scappare. Non credo che questo commento sarebbe piaciuto a Juana.
Ci sono altri due post su Juana:
Suor Juana Inés de la Cruz. Il poemetto introduttivo al Libro de Cocina.
Juana Inés de la Cruz dona castagne spinose.
La prima immagine di Juana viene da abm-enterprises.net.
La seconda da members.tripod.com.
Un paio di biografie:
wikipedia
i grandi eccentrici
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