martedì 26 giugno 2012

Il sogno della camera rossa. La monaca, le tazze da tè.



Per arrivare a queste tazze da tè, dobbiamo prendere in mano un romanzo cinese del XVIII secolo con una infinita moltitudine di personaggi che a lungo terrorizzò i traduttori. Un classico di quella letteratura, fonte, in Cina, di volumi su volumi di esegesi, di drammi rappresentati in teatro, di letture appassionate. Anche letture di giovani adolescenti, perché adolescenti e giovani sono i protagonisti. Letture tuttora in corso, pare, presso i contemporanei. Un formidabile malloppo che ho letto più volte, manco fossi un adolescente cinese, e ho cominciato a diciotto anni, quindi ci sono in pieno. Però non è mica facile da capire. Avvince e sfugge, si riavvolge nella sua impenetrabile cinesità.

Tra la folla dei protagonisti mi colpì un personaggio minore, una certa monaca capricciosa e sola, pretenziosa e fragile che vive nel un parco di una ricca famiglia. Parco allestito in occasione delle nozze di una delle ragazze della famiglia con l’imperatore; e nel quale, in vari padiglioni, abitano membri della famiglia stessa. Quando il parco venne costruito, la monaca vi fu trasferita da un monastero alle porte della città, come si può fare con una roccia o un ponte, per renderlo più proprio e più bello. Si tratta di un uccello di passo, che infatti verrà poi soffiato via dal vento di rovina che negli ultimi capitoli del romanzo disperderà tutti i protagonisti e lei in particolare, rapita dai briganti che entreranno nel parco oramai privo di protezione e la porteranno in un vuoto altrove di cui lo scrittore non ci dirà nulla. La monaca è un’orfana di mandarini dedita ad ascesi buddiste, di cui sembra far parte intrinseca bere il tè entro tali messe alla prova di coloro che lo sorbiscono da sembrare iniziazioni rituali.

La scena che vi trascrivo ha inizio con un gruppetto di questa famiglia di snob – l’ava o l’anziana della famiglia, due fanciulle, Pao-Ch’ai e Gioiazzurra, e un fanciullo, Pao-Yü - che, avendo ricevuto la visita di una cugina di campagna, comare Liu, la portano a spasso nel parco un po’ per divertirla e un po’ per divertirsi, prendendola alquanto in giro nella sua semplicità contadina. Arrivano fino al padiglione della monaca, più snob e sprovveduta di loro nelle sue rigidità di bambina sola, e impattano in un allarmante ricevimento a base di tè.

Apprezzatene ogni momento. La competenza sull’acqua da usare, per esempio. La prima domanda che viene rivolta alla monaca da un’ospite è: che acqua è stata usata? Nell’ipotesi che essa sarà certamente stata oggetto di attenta scelta. La monaca è in grado di rispondere per le rime. Acqua piovana dell’anno prima per un tè squisito ma non eccezionale, acqua ottenuta dalla neve caduta su fiori di susino in una certa area sacra e poi sepolta profondamente per cinque anni per un tè supremamente raffinato.

Quanto è forte quel tè? Per nulla, ovviamente. Il tè con un’infusione accentuata è buono solo per la campagnola. Per i raffinati, delicatezza, leggerezza, soavità, purezza.

E poi, le tazze. Che differenza con un “servizio” di tazze, dove tutto è consono, in tinta e democraticamente uguale, dai piattini alla zuccheriera. Qui la differenza tra le tazze segnala e organizza le relazioni tra le persone, le gerarchie, le preferenze, le scelte, i rifiuti. C’è una tazza Ming a cinque colori, preziosa, ma non quanto quella di stagno Sung molto più antica e appartenuta a un poeta; ancora più antica, di un tempo oramai mitico quella simile alla ciotola di un bonzo che pure fu di un famoso personaggio. Bislacca e allarmante quella di bambù intrecciati, quotidiane e al tempo stesso eccezionali quelle di finissima porcellana bianca e quella di giada. Sei tipi di tazze per un solo ricevimento, e il loro essere distribuite, passate di mano, richieste, offerte con speciale attenzione, rifiutate, donate, intreccia i rapporti tra i personaggi. Si intuisce pure che la tazza è anche in un inscindibile rapporto con chi la usa, diventa una sua parte: la tazza Ming si salva dalla distruzione solo perché la monaca non l’ha mai usata e può quindi tollerare che vi abbia bevuto la contadina, a patto di non vederla mai più e infine di separarsene.





"La comitiva era giunta all’eremo Gabbia dell’Alcione, dove abitava una bella, giovane monaca di nome Miao-Yü, dedita aI servizio di Budda; era una fanciulla di diciott’anni, di cultura raffinata, e apparteneva a una nobile stirpe di mandarini oriunda di Su-chou. Dopo Ia monte dei genitori, aveva rinunciato al mondo per consacrarsi al servizio di Budda. Quando la sposa imperiale aveva fatto visita alla sua famiglia, ella da un monastero alle porte della città era stata trasferita nel parco. E ora, nella solitudine del suo eremo, con due governanti anziane e una servetta, conduceva una pia vita d’anacoreta e, con severa penitenza e devote meditazioni, si sforzava in ogni modo di mortificare la carne ribelle e, pur cosi giovane, d’innalzarsi a grado a grado fino alla santità. La monaca era nota per i suoi capricci e per l’arte di preparare il tè; e perciò, subito dopo averla salutata, l’ava le domandò una tazza della sua celebre bevanda. Su un vassoio di lacca intarsiata di begonie in fiore, nubi, draghi e segni shou, la monaca le portò lei stessa una tazza a cinque colori della miglior porcellana di Ming, del periodo Ch’êng-Hua, colma di quella squisita varietà nota con il nome di “Sopracciglia di Lao Tzu “.
- Con che acqua è stato preparato? - domandò l’ava.
- Con l’acqua piovana raccolta l’anno scorso, - spiegò la monaca. L’ava vuotò a mezzo la tazza e diede il resto alla comare Liu; poi volle sapere se le fosse piaciuto.
- Buonissimo, ma un pochettino debole e insipido: avrebbe dovuto stare ancora in infusione, - dichiarò schiettamente la comare Liu. Il suo giudizio suscitò l’ilarità generale, ma offese terribilmente la monaca. Mentre una cameriera dell’eremo serviva al resto della compagnia la stessa qualità di tè in bianche tazze con coperchio, di porcellana sottilissima, della nuova marca “gusci d’uovo” fabbricata nella Manifattura di Stato, Pao-Ch’ai e Gioiazzurra ebbero il privilegio di vedersi offrire un altro tè particolarmente squisito dalle mani stesse della religiosa, che tirò le due fanciulle per l’orlo del giubbetto e le condusse in una camera appartata, la “camera dell’ascolto”. Curioso com’era, Pao-Yü non poté trattenersi dal seguire di soppiatto le tre giovani, osservando dalle fessure della porta quel che facesse la monaca.
Vide che invitava Pao-Ch’ai a sedere su un pancaccio di legno e Gioiazzurra su una stuoia per preghiere, poi metteva una pentola d’acqua sul fornello a riverbero e infine versava l’acqua bollente in una teiera. Allora spalancò la porta e irruppe nella camera esclamando: — Guarda un po’! Vi bevete in segreto il vostro tè speciale!
- Certo, e tu qui non c’entri! - replicarono ridendo le cugine. Ma Pao-Yü non si lasciò intimidire: rimase e insistette per assaggiare anche lui quel tè speciale. La monaca stava cercando le tazze per i suoi ospiti, quando entrò la domestica a portarle quella da cui prima avevano bevuto l’ava e la comare Liu; essa Ia rifiutò, esclamando:
- No, questa no! Mettila da parte, non verrà più adoperata! – “Ah, evidentemente la considera profanata, perchè ci ha bevuto la vecchia!”, si disse Pao-Yü. Finalmente la monaca aveva scelto due recipienti adatti per le fanciulle: l’uno era un prezioso, antico boccale di stagno del tempo dei Sung, come si apprendeva dall’iscrizione che v’era incisa: “nel quarto mese del quinto anno del periodo yüan fêng della dinastia Sung, Su Tung-Po viene accolto nell’Accademia Han Lin “. Il boccale a tre piedi provvisto di un’ansa era dunque appartenuto al celebre poeta Su Tung-Po. La monaca lo porse a Pao-Ch’ai. L’altro recipiente, anch’esso di metallo, somigliava a un patra, Ia ciotola per le elemosine usata dai monaci buddisti mendicanti, ma era un po’ più piccolo. La sua iscrizione provava che era ancora più antico, perchè nei tipici caratteri da sigillo simili a perle stillanti si poteva leggere: “Wên Ch’iao, che ha acceso il corno del rinoceronte”. Dunque probabilmente la ciotola era appartenuta a Wên Ch’iao, gloria letteraria e politica della dinastia dei Chin orientali, che, secondo la tradizione, ebbe la splendida idea di illuminare il letto di un fiume calando nell’acqua il corno acceso di un rinoceronte. La monaca porse a Gioiazzurra quel memorabile recipiente. Alla fine riempì una bella tazza di giada verde ch’ella usava ogni giorno e la offerse a Pao-Yü. Questi fu deluso.
- Le mie due cugine si vedono offrire questi magnifici, preziosi oggetti antichi, e io mi devo accontentare di semplice vasellame ordinario. Già, le mie cugine sono eccezioni e io sono soltanto un individuo ordinario! - disse, facendo scherzosamente il broncio.
- Lo chiamate vasellame ordinario, questo? - obiettò la monaca offesa. - Non vorrei essere presuntuosa, ma credo che a casa vostra non userete abitualmente roba come questa!
- Vicino alla vostra eletta persona, le abituali cose preziose come oro, perle e giada, diventano bazzecole ordinarie! - si corresse Pao-Yü con galanteria. Rabbonita, la monaca lo ricompensò con uno strano, mastodontico bicchiere di nodose radici di bambù intrecciate in molteplici serpeggiamenti, che cercò apposta per lui. Pao-Yü trovò impareggiabile il tè speciale della monaca, sorseggiato da quell’enorme “pecchero marittimo “, e non si stancava di cantarne le lodi.
- Anche questo è preparato con l’acqua piovana dell’anno scorso? - domandò Gioiazzurra.
La monaca torse la bocca a un sorriso sprezzante.
- Si vede che gente volgare siete voialtri! - disse. - Non riuscite nemmeno a distinguere la qualità dell’acqua usata per il tè! L’acqua con cui è stato preparato questo tè la ricavai cinque anni fa dalla neve caduta sui fiori di susino, nel Tempio dei Cupi Anelli d’Incenso Sepolcrali. Raccolsi la neve in quella brocca smaltata d’azzurro, con le teste degli spiriti, e per cinque anni la tenni sepolta a gran profondità sotterra, senza mai toccarla. La tirai fuori soltanto quest’estate, per attingerne l’acqua di neve. Oggi è la seconda volta che preparo il tè con la preziosa provvista. Come supporre che dalla comune acqua piovana dell’anno prima si possa ottenere un tè dal gusto cosi puro e delicato!
Gioiazzurra si guardò bene dall’irritare la suscettibilità della monaca con altre osservazioni sconsiderate, e preferì congedarsi poco dopo con Pao-Ch’ai. Pao-Yü si trattenne ancora e fece cadere il discorso sulla tazza di porcellana Ming, da cui prima aveva bevuto anche la vecchia Liu.
- Pur ammettendo che la tazza sia contaminata e profanata, - osservò, - non sarebbe un peccato ridurre quel bell’oggetto a semplice rifiuto? Secondo me, sarebbe meglio lasciarlo a quella buona, semplice contadina. Potrebbe venderlo e ricavarne una bella sommetta. Che ne pensate?
- Certo, si potrebbe, - disse la monaca dopo un attimo di riflessione: - per fortuna, non l’ho mai usata io, altrimenti I’avrei rotta subito! Ma sì; per conto mio, prendetela pure e regalatela voi alla vecchia!
Pao-Yü se ne andò col suo bottino. Fuori consegnò la tazza alla cameriera Anitra Mandarina e le ordinò di darla alla comare Liu il giorno dopo, al momento della partenza, come dono ospitale."

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Il sogno della camera rossa, a cura di Franz Kuhn, con ventisette illustrazioni originali di Kai Ch’i, Einaudi 1958, p. 306-309

La traduzione è dal tedesco, e non è un gran che. Alcuni termini sono lasciati in cinese e cercatevi voi cosa vuol dire – il segno Shou è un segno augurale simbolo di lunga vita - altri tradotti bizzarramente, come quel “pecchero marittimo” che ci becchiamo tra capo e collo. Pecchero vuol dire bicchiere in italiano arcaico; perché fosse marittimo, dio solo lo sa.

Per orientarci sulle tazze, qualche data:
Dinastia Chin Orientali (317-419)
Sung (960 – 1129), Tung Po, Su: Poeta e Pittore della dinastia Sung. visse dal 1036 al 1101 e verso la metà della sua vita si dedicò al taoismo.
Ming (1368-1644); decorazione wucai, (cinque colori); Ch'eng-hua (1465-1487)
Qing, la dinastia dello scrittore (1644-1911).

orsi in viaggio 31

sabato 23 giugno 2012

Madonne nere



La Madonna di Notre Dame a Le Puy en Velay, nera come il carbone, è un’ottocentesca, del tutto approssimativa evocazione dell’originale, bruciato durante la Rivoluzione. Non ha charme, ma ha davvero molti vestiti per tutte le occasioni rituali possibili, come – badate bene e ricordatevelo - una divinità egizia.

Si dice che l’originale fosse stato offerto da Luigi IX al ritorno da una crociata. Corre voce che fosse un’Iside con Horus tra le braccia, adottata senza tante storie dal cristianesimo.

Quella che vedete sotto è una copia più fedele della bruciata, anch’essa conservata a Notre Dame, eseguita in base a un’incisione dell’originale fatta da un tizio che ancora ce l’aveva sotto il naso. Questa seconda Madonna ci dice fino a che punto la copia ottocentesca, pur desiderosa di sanare la perdita, non abbia osato di fatto riprodurre l’originale nella sua strana e allarmante fisionomia dal lunghissimo naso e gli occhi allarmanti. Da ciò deriva quell’aria da goffa bomboletta senza identità dell’attualmente venerata. Ma tutta la storia delle Madonne nere che popolano la Francia è segnata da un’intensa ambivalenza: questa Madonna nera la vogliamo, ma insieme ci fa paura, non sappiamo bene cos’è. La vogliamo nera come il carbone e all’uopo le diamo una bella passata di vernice, ma è solo abbronzata, è solo affumicata. La mettiamo qui in cima all’altare, accorriamo da dovunque a fiumi per venerarla, ma alla prima occasione la bruciamo, e così via.



Quanto alla cattedrale, ad arricchirne ancora le radici, si sappia che sorge su un antico luogo gallico di culto delle pietre guaritrici, e una ancora è lì, in bella vista, per chi in preda alle febbri voglia stendercisi sopra. Pietre che non si è mancato di mettere in relazione con le Madonne, nel cercare tracce di continuità tra antichi e nuovi culti. Sempre a proposito di pietre ed eccentricità suggestive, si dice che quando l’originale venne bruciato, ne saltò fuori – era una scultura di legno cavo - una pietra segnata di geroglifici.

Quella di Puy en Velay è la prima Madonna nera della Francia centrale che incontriamo. Statue in cui madre e bambino se ne stanno rigidi e ieratici, l’uno incastrato nell’altra, occhi enormi e fissi, che più che guardarti si offrono perché tu ci guardi attraverso: fanno trasparire un altro mondo. Forse per questo spesso questi occhioni sono stati completamente dipinti di nero, offuscati e chiusi dal nero della vernice. Grande seduzione di questa divinità scura e composita, che è arrivata anche in qualche luogo d’Italia attraversando tempi che quasi non la riconoscono più. Una magnifica Madonna nera italiana sta a Tindari, in Sicilia, isola densa di Madonne nere.

Su questa Madonna nera leggo in cattedrale giustificazioni imbarazzanti: è nera perché neri erano i vignerons, i vignaioli bruciati dal sole, è nera per il fumo delle candele…di fatto in tutta la Francia, con una particolare concentrazione auvergnate, ci sono Madonne bianche che sono state dipinte di nero, perfino nel XX secolo, o nere che sono state dipinte di bianco, in un turbolento alternarsi di negazioni e resurrezioni di un significato simbolico oscuro e insieme irrinunciabile.

Tutto il corteo di simboli che accompagna queste Madonne, come i ritrovamenti entro cavità di alberi, in grotte, in luoghi umidi o sul bordo di fiumi, entro sarcofagi sepolti nella terra, il loro scegliere il luogo del culto diventando improvvisamente pesati e irremovibili, rimandano a divinità ctonie e alle dee sia locali che orientali che furono venerate in questi luoghi fino al V secolo circa, per poi scomparire e ricomparire nel XII come portate dai crociati, da San Luigi che tornavano dalla Palestina, dall’Egitto. Una di loro Notre-Dame de Meymac, viene chiamata l’Egiziana e ha un turbante dorato; quando i rivoluzionari aggredirono quella di Puy en Velay pare gridassero: bruciamo l’Egiziana!

Notre-Dame de Chalet.




Notre-Dame de la bonne mort a Clermont-Ferrand.



Notre Dame de Marsat.



Notre Dame de Saint Gervazy; l'immagine, da qui.



In lieuxsacres molte immagini – anche queste di AAA - di Madonne nere.

Qui se ne parla: viergesnoires.

Interessante la storia del restauro della siciliana Madonna di Tindari: appare un groviglio di storie, ipotesi, interventi assai suggestivo; tra l’altro, si fa l’ipotesi che la Madonna di Tindari sia stata scolpita da una scultore dell’Auvergne che però faceva pure il crociato in oriente. Se volete leggerne, cliccate sul sito del santuario e poi sul Restauro della statua.


 

Nell'Abbazia di Tournus c'è una Madonna Nera. Ovvero una di quelle Madonne che vengono da un medioevo lontano, forse orientale, e che spesso, anche se non sempre, ci sono arrivate con la pelle nera. Ma a volte sono state ridipinte, come questa, con le guance rosee. Del resto la caratteristica distintiva delle Madonne Nere non è il colore, ma tutto il resto: il sedere su un trono in posizione frontale, innanzitutto. Con una posa ieratica, sovrastante un Gesù che non sempre è un bambino, come in questo caso, e che viene offerto come un emblema. E poi le grandi mani, più grandi del normale, a indicare potenza.

La Madonna di Tournus è del XII° secolo, in legno di cedro, e come molte Madonne Nere, proviene dall'Auvergne ed è un reliquiario; è stata ridipinta nel XIX° secolo, epoca che ha dipinto Madonne Nere di bianco e Madonne bianche di nero, senza per altro lasciarci una sola parola scritta che permetta di capire qualcosa di questo travaglio.

Per secoli questa Madonna à stata oggetto di una grandissima venerazione; durante la Rivoluzione si salvò perchè un fedele se la nascose in casa, e la tenne con sè finché non vennero tempi migliori.


La Madonna di Tournus se ne sta in una cappella gotica.

orsi in viaggio 28


mercoledì 20 giugno 2012

Monastero Reale di Brou. Margherita d'Austria

Sono anni che incrocio questa madama. E' passato molto tempo, infatti, quando venni per la prima volta a Brou. Ed è passato molto tempo prima che mi convincessi che dovevo impicciarmi un po' di più di chi fosse quella che veniva presentata come costruttrice della gotica chiesa di Brou e delle sue tombe rinascimentali, in un romanzo di amore e morte ove quel monastero - mausoleo assumeva le veci di un Taj Mahal, dove però questa volta a sopravvivere inconsolabile era la vedova.

Ricordo, dalle precedenti visite, un luogo molto più "piccolo". Si visitavano le sole tombe, a tutto il complesso dei tre chiostri non si accedeva, e mancava il formidabile tetto a punta lucente di smaglianti, colorate piastrelle, frutto di un restauro conclusosi nel 1999 che è tornato a rendere gotico, aguzzo e variopinto ciò che il tempo e la voglia di risparmiare avevano ottuso e scurito, quando vecchiaia e marciumi avevano convinto i monaci, che allora vi abitavano ancora, che bisognava pur fare qualche rattoppo, ma rassegnandosi alla perdita delle tegole originarie e accorciando le malridotte travature, ottenendo così una scura copertura mansardata.

Ho quindi affrontato l'ostacolo delle complesse genealogie, maledette nel ripetersi dei dinastici nomi sempre uguali che confondono le idee, che hanno attraversato la nascente Europa mentre usciva dal medioevo e si andavano creando, tra rigurgiti tribali, matrimoni e guerre, le nazioni cui nel frattempo ci siamo abituati. E ho scoperto che Margherita non solo era bionda, vedova, principessa, cattolica, e che con quelle nazioni non aveva niente a che fare, perché quelle si stavano appunto formando mentre lei era ancora erede di una cultura aristocratica assai più trasversale e imperialistica, ma soprattutto che era proprio una zia, una vera a propria zia.

Zia di Carlo V, prima di ogni altra cosa (ha pure Francesco I come nipote, pensate un po'; ma di quello non si cura). Il nipotino, del quale a Brou resta un ritratto in cui è assai virgulto, giovane, esile, roseo, svagato, dotato di un ampio cappello a frittella poggiato sulla zazzera squadrata, di un mento molto puntuto e una semiaperta bocca tumida dal labbro inferiore sporgente (anche lei del resto non era priva di una certa bazza asburgica), resta infatti presto orfano del padre Filippo il Bello, fratello maggiore di Margerita, che ha avuto dalla moglie Giovanna la Pazza, che nel frattempo viene relegata in prigionia e tolta di mezzo, ben sei figli di cui lui, Carlo, è il maggiore. Massimiliano d'Asburgo, il padre di Margherita e Filippo, nonno di Carlo, affida lui e i fratelli alla figlia, che si occuperà dell'incarico più che coscenziosamente.

Ecco Carlo, di Bernard van Orley, nel quadro conservato nel museo di Brou. L'immagine, da flikr




Margherita nasce a Bruxelles nel 1480. I genitori sono Massimiliano d’Asburgo imperatore, appunto, e Maria di Borgogna, l’unica figlia dell’ultimo granduca, Carlo il Temerario.

La pupa Margherita resta presto priva della mamma, che muore a venticinque anni per una caduta da cavallo, e a soli tre anni sposa Carlo Delfino di Francia, poi Carlo VIII, che però quando lei ne ha 11 la ripudia per sposare Anna di Bretagna, diventata più conveniente alle sue mire di conquista di regni e territori. C'è un ritratto di Margherita a tre anni, da "fidanzata", in cui è vestita di tutto punto, con un capello a pan di zucchero di panno nero su cui è appuntato un gran gioiello e la faccetta dura da chi sta già stringendo i denti.



L'immagine, da qui.



Qui è ancora bambina e ancora "regina di Francia"; ha infatti dieci anni. Di nuovo pare non divertirsi per niente. Il dipinto è di Jean Hey’s, detto anche Maestro di Moulins; il quadro è al Metropolitan Museum of Art, New York.

Dopo poco dovrà riprendere a cavarsela in un percorso disseminato di attentati alla superbia aristocratica, alla vita, ai possessi faticosamente accumulati dalla sua famiglia.

Nel 1497, ancora giovanissima, sposa Juan di Castiglia, che muore pochi mesi dopo. Resta un paio di anni con la suocera, Isabella (quella della biancheria, o se si vuole di Cristoforo Colombo); quindi nel 1501 sposa Filiberto di Savoia, detto pure lui il Bello (sospetto che a quell'epoca ogni giovane aristocratico alto e forte, in buona salute, fosse festeggiato con quell'aggettivo) che ha un grande ducato che va a nord da Burg en Bresse a Ginevra, a sud da Nizza a Torino e una certa voglia di divertirsi in cui coinvolge la moglie. Tre anni dopo anche lui muore, dopo una gran sudata fatta andando a caccia e una bevuta di acqua gelida da una fonte falsamente ristoratrice. Lei ha 25 anni.

Venticinque anni prima la suocera, chiamata anche lei Margherita, aveva fatto un voto: il marito aveva avuto un incidente di caccia; se fosse guarito, lei avrebbe fatto edificare una chiesa a Brou. Il marito era guarito. Era passato del tempo, la suocera era morta e non se ne era fatto nulla. Margherita interpreta la morte di Filiberto come un segno del cielo in risposta al mancato voto. Si accinge all'impresa di far costruire il convento.

Intanto, divenuta tutrice di Carlo e dei fratelli, lascia la Savoia e va a fare la reggente dei Paesi Bassi, a Malins. Lo sarà per 25 anni. Muore nel 1530, due anni prima della morte di Carlo V e della fine dei lavori di Brou, alla cui costruzione partecipa intensamente, valutando progetti e scegliendo artefici, ma che non vedrà mai.



Questo è il ritratto di una rosea Margherita in abiti da vedova - li porterà fino alla morte - di Bernard van Orley, conservato nel museo di Brou, Bourg-en-Bresse. Eccola infine distesa e sorridente. Il ritratto è del 1518, mentre quello di Carlo è del 1516. In pratica, coevi. Possiamo immaginarci le facce dei giovani zia e nipote a confronto, mentre lei gli dà gli immancabili buoni consigli.
L'immagine, da linternaute.com



Questo ritratto, assai vicino al precedente, ma meno roseo, è di pure di Bernard van Orley; dal Musée Royaux des Beaux Arts di Brüssel; l'immagine da wikipedia.

Quest'altra immagine, da un libro miniato dedicato alla genealogia di Carlo V. Riporta, oltre che le pertinenti margherite, il suo celebre motto: Fortune Infortune Fort Une. La fortuna importuna assai una donna. Ma anche: la sorte, sia buona che cattiva, rende forte una donna.

L'immagine da larusse.fr