giovedì 28 giugno 2012

La bête de Gevaudan.



Mentre ci addentravamo nel massiccio centrale, a una svolta di strada abbiamo incontrato la statua della bête de Gevaudan.

Forse l’ultimo mostro medioevale, e uno dei primi esempi che io conosca di un evento massmediatico, che le semplificanti necessità retoriche della nascente stampa sensazionalista – XVIII secolo - hanno contribuito a creare.

All’epoca di Luigi XV, nelle terre marginali, nevose, povere, scarsamente abitate, selvatiche del massiccio centrale della Francia, terre ancora dentro un’amministrazione feudale, si verificarono diverse morti violente, soprattutto di fanciulli e fanciulle, qualcuno di donna e nessuno di un uomo adulto. I cadaveri, straziati da profonde ferite, vennero ritrovati nei campi gelati, e le morti vennero collegate a un lupo di grandezza e ferocia innaturali, cui venne data una caccia eccezionale alla quale parteciparono anche le milizie del re.



Badate bene, molti furono anche i testimoni sopravvissuti. Ma se mai ci fosse ancora bisogno di verificare quanto sia difficile constatare qualcosa con i propri occhi, se tali occhi non sono supportati da opportune e condivise convenzioni su ciò che si sta vedendo, il caso della bête de Gevaudan si presterebbe benissimo. Quindi, molti testimoni, e nessuna certezza su ciò che si stava vedendo. Uomini lupo? Licantropi? Delinquenti perversi mascherati da animali mostruosi? Animali imprevedibili, enormi linci, ibridi di lupi e molossi, perfino tigri? Tutto è stato ipotizzato, supposto, discettato. E ogni ipotesi, fino ad oggi, è stata rifiutata come conclusiva.

Cacce confuse quindi, dall’esito incerto. Non si sapeva chi si stesse cacciando, né se lo si uccise; ci fu la morte di un paio di grandi lupi, che però lasciò in vita tutti gli scetticismi. Gli eventi restarono avvolti nell’incertezza e nei fumi di nebbiose e sinistre fantasie. Continuava a vivere nella fantasia alimentata dalla stampa un mostro animale, oppure un mostro umano, o meglio una combinazione dei due; si sospettò l’intervento di una sorta di principe balcanico locale assetato di sangue di fanciulli, si accusò la spietatezza dei luoghi e delle condizioni in cui vivevano quelle genti montagnose, si suppose la responsabilità di una violenta famiglia locale, che avrebbe dovuto essere dalla parte dei cacciatori e che invece poteva essere l’anima e il ricettacolo della belva, si disse pure che si trattava di una cospirazione governativa contro le genti del posto, non sufficientemente monarchiche.

Gli eventi produssero molta stampa, non solo in Francia ma anche in Inghilterra, dove si prese adeguatamente in giro un re che non riusciva a catturare la bestia con la sua armata. Ciò provocò una censura sugli eventi che arrivò al fatto che nei registri delle parrocchie non si poté più scrivere che si seppelliva qualcuno ucciso dalla bête; censura che, combinata con le “notizie” riportate dalla stampa che non rinunciavano al mostro, contribuirono a confondere definitivamente le piste e a sollecitare la credenza in una indefinibile, suggestiva e alla fine intoccabile creatura non umana, sovrumana. Vennero pure prodotte molte immagini che ancora oggi spaventano per l’incantamento possono suscitare attraverso la commistione di crudeltà e sessualità sanguinosa.



La nostra tappa a Saugues nell’Auvergne, al centro del territorio che fu percorso dalla bête, e la visita nell’edicola – libreria locale ci fa scoprire che ancora oggi ancora si discetta su cosa successe senza venire a capo di nulla, incerti tra bestie e uomini, e anche se molti sospetti vertono su questi ultimi, nell’iconografia vince senz’altro la più pittoresca, immaginifica bestia. Tanto pittoresca e tanto immaginifica da venire assunta come icona del posto, e proposta nei fumetti per i bambini come in numerosi libri che continuano ad essere venduti ai viaggiatori che passano di lì.

Le immagini, da betedugevaudan.com

orsi in viaggio 33


martedì 26 giugno 2012

Il sogno della camera rossa. La monaca, le tazze da tè.



Per arrivare a queste tazze da tè, dobbiamo prendere in mano un romanzo cinese del XVIII secolo con una infinita moltitudine di personaggi che a lungo terrorizzò i traduttori. Un classico di quella letteratura, fonte, in Cina, di volumi su volumi di esegesi, di drammi rappresentati in teatro, di letture appassionate. Anche letture di giovani adolescenti, perché adolescenti e giovani sono i protagonisti. Letture tuttora in corso, pare, presso i contemporanei. Un formidabile malloppo che ho letto più volte, manco fossi un adolescente cinese, e ho cominciato a diciotto anni, quindi ci sono in pieno. Però non è mica facile da capire. Avvince e sfugge, si riavvolge nella sua impenetrabile cinesità.

Tra la folla dei protagonisti mi colpì un personaggio minore, una certa monaca capricciosa e sola, pretenziosa e fragile che vive nel un parco di una ricca famiglia. Parco allestito in occasione delle nozze di una delle ragazze della famiglia con l’imperatore; e nel quale, in vari padiglioni, abitano membri della famiglia stessa. Quando il parco venne costruito, la monaca vi fu trasferita da un monastero alle porte della città, come si può fare con una roccia o un ponte, per renderlo più proprio e più bello. Si tratta di un uccello di passo, che infatti verrà poi soffiato via dal vento di rovina che negli ultimi capitoli del romanzo disperderà tutti i protagonisti e lei in particolare, rapita dai briganti che entreranno nel parco oramai privo di protezione e la porteranno in un vuoto altrove di cui lo scrittore non ci dirà nulla. La monaca è un’orfana di mandarini dedita ad ascesi buddiste, di cui sembra far parte intrinseca bere il tè entro tali messe alla prova di coloro che lo sorbiscono da sembrare iniziazioni rituali.

La scena che vi trascrivo ha inizio con un gruppetto di questa famiglia di snob – l’ava o l’anziana della famiglia, due fanciulle, Pao-Ch’ai e Gioiazzurra, e un fanciullo, Pao-Yü - che, avendo ricevuto la visita di una cugina di campagna, comare Liu, la portano a spasso nel parco un po’ per divertirla e un po’ per divertirsi, prendendola alquanto in giro nella sua semplicità contadina. Arrivano fino al padiglione della monaca, più snob e sprovveduta di loro nelle sue rigidità di bambina sola, e impattano in un allarmante ricevimento a base di tè.

Apprezzatene ogni momento. La competenza sull’acqua da usare, per esempio. La prima domanda che viene rivolta alla monaca da un’ospite è: che acqua è stata usata? Nell’ipotesi che essa sarà certamente stata oggetto di attenta scelta. La monaca è in grado di rispondere per le rime. Acqua piovana dell’anno prima per un tè squisito ma non eccezionale, acqua ottenuta dalla neve caduta su fiori di susino in una certa area sacra e poi sepolta profondamente per cinque anni per un tè supremamente raffinato.

Quanto è forte quel tè? Per nulla, ovviamente. Il tè con un’infusione accentuata è buono solo per la campagnola. Per i raffinati, delicatezza, leggerezza, soavità, purezza.

E poi, le tazze. Che differenza con un “servizio” di tazze, dove tutto è consono, in tinta e democraticamente uguale, dai piattini alla zuccheriera. Qui la differenza tra le tazze segnala e organizza le relazioni tra le persone, le gerarchie, le preferenze, le scelte, i rifiuti. C’è una tazza Ming a cinque colori, preziosa, ma non quanto quella di stagno Sung molto più antica e appartenuta a un poeta; ancora più antica, di un tempo oramai mitico quella simile alla ciotola di un bonzo che pure fu di un famoso personaggio. Bislacca e allarmante quella di bambù intrecciati, quotidiane e al tempo stesso eccezionali quelle di finissima porcellana bianca e quella di giada. Sei tipi di tazze per un solo ricevimento, e il loro essere distribuite, passate di mano, richieste, offerte con speciale attenzione, rifiutate, donate, intreccia i rapporti tra i personaggi. Si intuisce pure che la tazza è anche in un inscindibile rapporto con chi la usa, diventa una sua parte: la tazza Ming si salva dalla distruzione solo perché la monaca non l’ha mai usata e può quindi tollerare che vi abbia bevuto la contadina, a patto di non vederla mai più e infine di separarsene.





"La comitiva era giunta all’eremo Gabbia dell’Alcione, dove abitava una bella, giovane monaca di nome Miao-Yü, dedita aI servizio di Budda; era una fanciulla di diciott’anni, di cultura raffinata, e apparteneva a una nobile stirpe di mandarini oriunda di Su-chou. Dopo Ia monte dei genitori, aveva rinunciato al mondo per consacrarsi al servizio di Budda. Quando la sposa imperiale aveva fatto visita alla sua famiglia, ella da un monastero alle porte della città era stata trasferita nel parco. E ora, nella solitudine del suo eremo, con due governanti anziane e una servetta, conduceva una pia vita d’anacoreta e, con severa penitenza e devote meditazioni, si sforzava in ogni modo di mortificare la carne ribelle e, pur cosi giovane, d’innalzarsi a grado a grado fino alla santità. La monaca era nota per i suoi capricci e per l’arte di preparare il tè; e perciò, subito dopo averla salutata, l’ava le domandò una tazza della sua celebre bevanda. Su un vassoio di lacca intarsiata di begonie in fiore, nubi, draghi e segni shou, la monaca le portò lei stessa una tazza a cinque colori della miglior porcellana di Ming, del periodo Ch’êng-Hua, colma di quella squisita varietà nota con il nome di “Sopracciglia di Lao Tzu “.
- Con che acqua è stato preparato? - domandò l’ava.
- Con l’acqua piovana raccolta l’anno scorso, - spiegò la monaca. L’ava vuotò a mezzo la tazza e diede il resto alla comare Liu; poi volle sapere se le fosse piaciuto.
- Buonissimo, ma un pochettino debole e insipido: avrebbe dovuto stare ancora in infusione, - dichiarò schiettamente la comare Liu. Il suo giudizio suscitò l’ilarità generale, ma offese terribilmente la monaca. Mentre una cameriera dell’eremo serviva al resto della compagnia la stessa qualità di tè in bianche tazze con coperchio, di porcellana sottilissima, della nuova marca “gusci d’uovo” fabbricata nella Manifattura di Stato, Pao-Ch’ai e Gioiazzurra ebbero il privilegio di vedersi offrire un altro tè particolarmente squisito dalle mani stesse della religiosa, che tirò le due fanciulle per l’orlo del giubbetto e le condusse in una camera appartata, la “camera dell’ascolto”. Curioso com’era, Pao-Yü non poté trattenersi dal seguire di soppiatto le tre giovani, osservando dalle fessure della porta quel che facesse la monaca.
Vide che invitava Pao-Ch’ai a sedere su un pancaccio di legno e Gioiazzurra su una stuoia per preghiere, poi metteva una pentola d’acqua sul fornello a riverbero e infine versava l’acqua bollente in una teiera. Allora spalancò la porta e irruppe nella camera esclamando: — Guarda un po’! Vi bevete in segreto il vostro tè speciale!
- Certo, e tu qui non c’entri! - replicarono ridendo le cugine. Ma Pao-Yü non si lasciò intimidire: rimase e insistette per assaggiare anche lui quel tè speciale. La monaca stava cercando le tazze per i suoi ospiti, quando entrò la domestica a portarle quella da cui prima avevano bevuto l’ava e la comare Liu; essa Ia rifiutò, esclamando:
- No, questa no! Mettila da parte, non verrà più adoperata! – “Ah, evidentemente la considera profanata, perchè ci ha bevuto la vecchia!”, si disse Pao-Yü. Finalmente la monaca aveva scelto due recipienti adatti per le fanciulle: l’uno era un prezioso, antico boccale di stagno del tempo dei Sung, come si apprendeva dall’iscrizione che v’era incisa: “nel quarto mese del quinto anno del periodo yüan fêng della dinastia Sung, Su Tung-Po viene accolto nell’Accademia Han Lin “. Il boccale a tre piedi provvisto di un’ansa era dunque appartenuto al celebre poeta Su Tung-Po. La monaca lo porse a Pao-Ch’ai. L’altro recipiente, anch’esso di metallo, somigliava a un patra, Ia ciotola per le elemosine usata dai monaci buddisti mendicanti, ma era un po’ più piccolo. La sua iscrizione provava che era ancora più antico, perchè nei tipici caratteri da sigillo simili a perle stillanti si poteva leggere: “Wên Ch’iao, che ha acceso il corno del rinoceronte”. Dunque probabilmente la ciotola era appartenuta a Wên Ch’iao, gloria letteraria e politica della dinastia dei Chin orientali, che, secondo la tradizione, ebbe la splendida idea di illuminare il letto di un fiume calando nell’acqua il corno acceso di un rinoceronte. La monaca porse a Gioiazzurra quel memorabile recipiente. Alla fine riempì una bella tazza di giada verde ch’ella usava ogni giorno e la offerse a Pao-Yü. Questi fu deluso.
- Le mie due cugine si vedono offrire questi magnifici, preziosi oggetti antichi, e io mi devo accontentare di semplice vasellame ordinario. Già, le mie cugine sono eccezioni e io sono soltanto un individuo ordinario! - disse, facendo scherzosamente il broncio.
- Lo chiamate vasellame ordinario, questo? - obiettò la monaca offesa. - Non vorrei essere presuntuosa, ma credo che a casa vostra non userete abitualmente roba come questa!
- Vicino alla vostra eletta persona, le abituali cose preziose come oro, perle e giada, diventano bazzecole ordinarie! - si corresse Pao-Yü con galanteria. Rabbonita, la monaca lo ricompensò con uno strano, mastodontico bicchiere di nodose radici di bambù intrecciate in molteplici serpeggiamenti, che cercò apposta per lui. Pao-Yü trovò impareggiabile il tè speciale della monaca, sorseggiato da quell’enorme “pecchero marittimo “, e non si stancava di cantarne le lodi.
- Anche questo è preparato con l’acqua piovana dell’anno scorso? - domandò Gioiazzurra.
La monaca torse la bocca a un sorriso sprezzante.
- Si vede che gente volgare siete voialtri! - disse. - Non riuscite nemmeno a distinguere la qualità dell’acqua usata per il tè! L’acqua con cui è stato preparato questo tè la ricavai cinque anni fa dalla neve caduta sui fiori di susino, nel Tempio dei Cupi Anelli d’Incenso Sepolcrali. Raccolsi la neve in quella brocca smaltata d’azzurro, con le teste degli spiriti, e per cinque anni la tenni sepolta a gran profondità sotterra, senza mai toccarla. La tirai fuori soltanto quest’estate, per attingerne l’acqua di neve. Oggi è la seconda volta che preparo il tè con la preziosa provvista. Come supporre che dalla comune acqua piovana dell’anno prima si possa ottenere un tè dal gusto cosi puro e delicato!
Gioiazzurra si guardò bene dall’irritare la suscettibilità della monaca con altre osservazioni sconsiderate, e preferì congedarsi poco dopo con Pao-Ch’ai. Pao-Yü si trattenne ancora e fece cadere il discorso sulla tazza di porcellana Ming, da cui prima aveva bevuto anche la vecchia Liu.
- Pur ammettendo che la tazza sia contaminata e profanata, - osservò, - non sarebbe un peccato ridurre quel bell’oggetto a semplice rifiuto? Secondo me, sarebbe meglio lasciarlo a quella buona, semplice contadina. Potrebbe venderlo e ricavarne una bella sommetta. Che ne pensate?
- Certo, si potrebbe, - disse la monaca dopo un attimo di riflessione: - per fortuna, non l’ho mai usata io, altrimenti I’avrei rotta subito! Ma sì; per conto mio, prendetela pure e regalatela voi alla vecchia!
Pao-Yü se ne andò col suo bottino. Fuori consegnò la tazza alla cameriera Anitra Mandarina e le ordinò di darla alla comare Liu il giorno dopo, al momento della partenza, come dono ospitale."

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Il sogno della camera rossa, a cura di Franz Kuhn, con ventisette illustrazioni originali di Kai Ch’i, Einaudi 1958, p. 306-309

La traduzione è dal tedesco, e non è un gran che. Alcuni termini sono lasciati in cinese e cercatevi voi cosa vuol dire – il segno Shou è un segno augurale simbolo di lunga vita - altri tradotti bizzarramente, come quel “pecchero marittimo” che ci becchiamo tra capo e collo. Pecchero vuol dire bicchiere in italiano arcaico; perché fosse marittimo, dio solo lo sa.

Per orientarci sulle tazze, qualche data:
Dinastia Chin Orientali (317-419)
Sung (960 – 1129), Tung Po, Su: Poeta e Pittore della dinastia Sung. visse dal 1036 al 1101 e verso la metà della sua vita si dedicò al taoismo.
Ming (1368-1644); decorazione wucai, (cinque colori); Ch'eng-hua (1465-1487)
Qing, la dinastia dello scrittore (1644-1911).

orsi in viaggio 31

sabato 23 giugno 2012

Madonne nere



La Madonna di Notre Dame a Le Puy en Velay, nera come il carbone, è un’ottocentesca, del tutto approssimativa evocazione dell’originale, bruciato durante la Rivoluzione. Non ha charme, ma ha davvero molti vestiti per tutte le occasioni rituali possibili, come – badate bene e ricordatevelo - una divinità egizia.

Si dice che l’originale fosse stato offerto da Luigi IX al ritorno da una crociata. Corre voce che fosse un’Iside con Horus tra le braccia, adottata senza tante storie dal cristianesimo.

Quella che vedete sotto è una copia più fedele della bruciata, anch’essa conservata a Notre Dame, eseguita in base a un’incisione dell’originale fatta da un tizio che ancora ce l’aveva sotto il naso. Questa seconda Madonna ci dice fino a che punto la copia ottocentesca, pur desiderosa di sanare la perdita, non abbia osato di fatto riprodurre l’originale nella sua strana e allarmante fisionomia dal lunghissimo naso e gli occhi allarmanti. Da ciò deriva quell’aria da goffa bomboletta senza identità dell’attualmente venerata. Ma tutta la storia delle Madonne nere che popolano la Francia è segnata da un’intensa ambivalenza: questa Madonna nera la vogliamo, ma insieme ci fa paura, non sappiamo bene cos’è. La vogliamo nera come il carbone e all’uopo le diamo una bella passata di vernice, ma è solo abbronzata, è solo affumicata. La mettiamo qui in cima all’altare, accorriamo da dovunque a fiumi per venerarla, ma alla prima occasione la bruciamo, e così via.



Quanto alla cattedrale, ad arricchirne ancora le radici, si sappia che sorge su un antico luogo gallico di culto delle pietre guaritrici, e una ancora è lì, in bella vista, per chi in preda alle febbri voglia stendercisi sopra. Pietre che non si è mancato di mettere in relazione con le Madonne, nel cercare tracce di continuità tra antichi e nuovi culti. Sempre a proposito di pietre ed eccentricità suggestive, si dice che quando l’originale venne bruciato, ne saltò fuori – era una scultura di legno cavo - una pietra segnata di geroglifici.

Quella di Puy en Velay è la prima Madonna nera della Francia centrale che incontriamo. Statue in cui madre e bambino se ne stanno rigidi e ieratici, l’uno incastrato nell’altra, occhi enormi e fissi, che più che guardarti si offrono perché tu ci guardi attraverso: fanno trasparire un altro mondo. Forse per questo spesso questi occhioni sono stati completamente dipinti di nero, offuscati e chiusi dal nero della vernice. Grande seduzione di questa divinità scura e composita, che è arrivata anche in qualche luogo d’Italia attraversando tempi che quasi non la riconoscono più. Una magnifica Madonna nera italiana sta a Tindari, in Sicilia, isola densa di Madonne nere.

Su questa Madonna nera leggo in cattedrale giustificazioni imbarazzanti: è nera perché neri erano i vignerons, i vignaioli bruciati dal sole, è nera per il fumo delle candele…di fatto in tutta la Francia, con una particolare concentrazione auvergnate, ci sono Madonne bianche che sono state dipinte di nero, perfino nel XX secolo, o nere che sono state dipinte di bianco, in un turbolento alternarsi di negazioni e resurrezioni di un significato simbolico oscuro e insieme irrinunciabile.

Tutto il corteo di simboli che accompagna queste Madonne, come i ritrovamenti entro cavità di alberi, in grotte, in luoghi umidi o sul bordo di fiumi, entro sarcofagi sepolti nella terra, il loro scegliere il luogo del culto diventando improvvisamente pesati e irremovibili, rimandano a divinità ctonie e alle dee sia locali che orientali che furono venerate in questi luoghi fino al V secolo circa, per poi scomparire e ricomparire nel XII come portate dai crociati, da San Luigi che tornavano dalla Palestina, dall’Egitto. Una di loro Notre-Dame de Meymac, viene chiamata l’Egiziana e ha un turbante dorato; quando i rivoluzionari aggredirono quella di Puy en Velay pare gridassero: bruciamo l’Egiziana!

Notre-Dame de Chalet.




Notre-Dame de la bonne mort a Clermont-Ferrand.



Notre Dame de Marsat.



Notre Dame de Saint Gervazy; l'immagine, da qui.



In lieuxsacres molte immagini – anche queste di AAA - di Madonne nere.

Qui se ne parla: viergesnoires.

Interessante la storia del restauro della siciliana Madonna di Tindari: appare un groviglio di storie, ipotesi, interventi assai suggestivo; tra l’altro, si fa l’ipotesi che la Madonna di Tindari sia stata scolpita da una scultore dell’Auvergne che però faceva pure il crociato in oriente. Se volete leggerne, cliccate sul sito del santuario e poi sul Restauro della statua.


 

Nell'Abbazia di Tournus c'è una Madonna Nera. Ovvero una di quelle Madonne che vengono da un medioevo lontano, forse orientale, e che spesso, anche se non sempre, ci sono arrivate con la pelle nera. Ma a volte sono state ridipinte, come questa, con le guance rosee. Del resto la caratteristica distintiva delle Madonne Nere non è il colore, ma tutto il resto: il sedere su un trono in posizione frontale, innanzitutto. Con una posa ieratica, sovrastante un Gesù che non sempre è un bambino, come in questo caso, e che viene offerto come un emblema. E poi le grandi mani, più grandi del normale, a indicare potenza.

La Madonna di Tournus è del XII° secolo, in legno di cedro, e come molte Madonne Nere, proviene dall'Auvergne ed è un reliquiario; è stata ridipinta nel XIX° secolo, epoca che ha dipinto Madonne Nere di bianco e Madonne bianche di nero, senza per altro lasciarci una sola parola scritta che permetta di capire qualcosa di questo travaglio.

Per secoli questa Madonna à stata oggetto di una grandissima venerazione; durante la Rivoluzione si salvò perchè un fedele se la nascose in casa, e la tenne con sè finché non vennero tempi migliori.


La Madonna di Tournus se ne sta in una cappella gotica.

orsi in viaggio 28


mercoledì 20 giugno 2012

Monastero Reale di Brou. Margherita d'Austria

Sono anni che incrocio questa madama. E' passato molto tempo, infatti, quando venni per la prima volta a Brou. Ed è passato molto tempo prima che mi convincessi che dovevo impicciarmi un po' di più di chi fosse quella che veniva presentata come costruttrice della gotica chiesa di Brou e delle sue tombe rinascimentali, in un romanzo di amore e morte ove quel monastero - mausoleo assumeva le veci di un Taj Mahal, dove però questa volta a sopravvivere inconsolabile era la vedova.

Ricordo, dalle precedenti visite, un luogo molto più "piccolo". Si visitavano le sole tombe, a tutto il complesso dei tre chiostri non si accedeva, e mancava il formidabile tetto a punta lucente di smaglianti, colorate piastrelle, frutto di un restauro conclusosi nel 1999 che è tornato a rendere gotico, aguzzo e variopinto ciò che il tempo e la voglia di risparmiare avevano ottuso e scurito, quando vecchiaia e marciumi avevano convinto i monaci, che allora vi abitavano ancora, che bisognava pur fare qualche rattoppo, ma rassegnandosi alla perdita delle tegole originarie e accorciando le malridotte travature, ottenendo così una scura copertura mansardata.

Ho quindi affrontato l'ostacolo delle complesse genealogie, maledette nel ripetersi dei dinastici nomi sempre uguali che confondono le idee, che hanno attraversato la nascente Europa mentre usciva dal medioevo e si andavano creando, tra rigurgiti tribali, matrimoni e guerre, le nazioni cui nel frattempo ci siamo abituati. E ho scoperto che Margherita non solo era bionda, vedova, principessa, cattolica, e che con quelle nazioni non aveva niente a che fare, perché quelle si stavano appunto formando mentre lei era ancora erede di una cultura aristocratica assai più trasversale e imperialistica, ma soprattutto che era proprio una zia, una vera a propria zia.

Zia di Carlo V, prima di ogni altra cosa (ha pure Francesco I come nipote, pensate un po'; ma di quello non si cura). Il nipotino, del quale a Brou resta un ritratto in cui è assai virgulto, giovane, esile, roseo, svagato, dotato di un ampio cappello a frittella poggiato sulla zazzera squadrata, di un mento molto puntuto e una semiaperta bocca tumida dal labbro inferiore sporgente (anche lei del resto non era priva di una certa bazza asburgica), resta infatti presto orfano del padre Filippo il Bello, fratello maggiore di Margerita, che ha avuto dalla moglie Giovanna la Pazza, che nel frattempo viene relegata in prigionia e tolta di mezzo, ben sei figli di cui lui, Carlo, è il maggiore. Massimiliano d'Asburgo, il padre di Margherita e Filippo, nonno di Carlo, affida lui e i fratelli alla figlia, che si occuperà dell'incarico più che coscenziosamente.

Ecco Carlo, di Bernard van Orley, nel quadro conservato nel museo di Brou. L'immagine, da flikr




Margherita nasce a Bruxelles nel 1480. I genitori sono Massimiliano d’Asburgo imperatore, appunto, e Maria di Borgogna, l’unica figlia dell’ultimo granduca, Carlo il Temerario.

La pupa Margherita resta presto priva della mamma, che muore a venticinque anni per una caduta da cavallo, e a soli tre anni sposa Carlo Delfino di Francia, poi Carlo VIII, che però quando lei ne ha 11 la ripudia per sposare Anna di Bretagna, diventata più conveniente alle sue mire di conquista di regni e territori. C'è un ritratto di Margherita a tre anni, da "fidanzata", in cui è vestita di tutto punto, con un capello a pan di zucchero di panno nero su cui è appuntato un gran gioiello e la faccetta dura da chi sta già stringendo i denti.



L'immagine, da qui.



Qui è ancora bambina e ancora "regina di Francia"; ha infatti dieci anni. Di nuovo pare non divertirsi per niente. Il dipinto è di Jean Hey’s, detto anche Maestro di Moulins; il quadro è al Metropolitan Museum of Art, New York.

Dopo poco dovrà riprendere a cavarsela in un percorso disseminato di attentati alla superbia aristocratica, alla vita, ai possessi faticosamente accumulati dalla sua famiglia.

Nel 1497, ancora giovanissima, sposa Juan di Castiglia, che muore pochi mesi dopo. Resta un paio di anni con la suocera, Isabella (quella della biancheria, o se si vuole di Cristoforo Colombo); quindi nel 1501 sposa Filiberto di Savoia, detto pure lui il Bello (sospetto che a quell'epoca ogni giovane aristocratico alto e forte, in buona salute, fosse festeggiato con quell'aggettivo) che ha un grande ducato che va a nord da Burg en Bresse a Ginevra, a sud da Nizza a Torino e una certa voglia di divertirsi in cui coinvolge la moglie. Tre anni dopo anche lui muore, dopo una gran sudata fatta andando a caccia e una bevuta di acqua gelida da una fonte falsamente ristoratrice. Lei ha 25 anni.

Venticinque anni prima la suocera, chiamata anche lei Margherita, aveva fatto un voto: il marito aveva avuto un incidente di caccia; se fosse guarito, lei avrebbe fatto edificare una chiesa a Brou. Il marito era guarito. Era passato del tempo, la suocera era morta e non se ne era fatto nulla. Margherita interpreta la morte di Filiberto come un segno del cielo in risposta al mancato voto. Si accinge all'impresa di far costruire il convento.

Intanto, divenuta tutrice di Carlo e dei fratelli, lascia la Savoia e va a fare la reggente dei Paesi Bassi, a Malins. Lo sarà per 25 anni. Muore nel 1530, due anni prima della morte di Carlo V e della fine dei lavori di Brou, alla cui costruzione partecipa intensamente, valutando progetti e scegliendo artefici, ma che non vedrà mai.



Questo è il ritratto di una rosea Margherita in abiti da vedova - li porterà fino alla morte - di Bernard van Orley, conservato nel museo di Brou, Bourg-en-Bresse. Eccola infine distesa e sorridente. Il ritratto è del 1518, mentre quello di Carlo è del 1516. In pratica, coevi. Possiamo immaginarci le facce dei giovani zia e nipote a confronto, mentre lei gli dà gli immancabili buoni consigli.
L'immagine, da linternaute.com



Questo ritratto, assai vicino al precedente, ma meno roseo, è di pure di Bernard van Orley; dal Musée Royaux des Beaux Arts di Brüssel; l'immagine da wikipedia.

Quest'altra immagine, da un libro miniato dedicato alla genealogia di Carlo V. Riporta, oltre che le pertinenti margherite, il suo celebre motto: Fortune Infortune Fort Une. La fortuna importuna assai una donna. Ma anche: la sorte, sia buona che cattiva, rende forte una donna.

L'immagine da larusse.fr

orsi in viaggio 25


martedì 19 giugno 2012

Cina. La lirica cinese e cosa ne pensava Montale.


Court Lady with Flowers, Zhou Fang, Tang Dynasty, silk
Da chineseteaceremony.eu



Uno stralcio dalla prefazione di Eugenio Montale a Liriche cinesi (1753 a.C. – 1278 d. C.), Einaudi, Torino 1955:

“[…] il vasto, secolare paesaggio che ci si apre dinanzi agli sguardi ci lascia ancora una volta privi di riferimenti e, pur nell’ammirazione, disorientati.
 Questa poesia non è un microcosmo che riveli e illumini perfettamente l’entità macrocosmica che le ha permesso di formarsi — la formicolante, travagliata, civile, ed estenuatissima vita, e vita millenaria, di un popolo sterminato, diversissimo dai nostri; è invece un insieme di gocce d’acqua che dovrebbero rivelarci un oceano e se ne stanno chiuse nelle loro fiale delicate a sottili; è un lampo di madreperla che illumina una tragedia troppo più che individuale per suggerirci parole di quaggiù.
 Attraverso secoli di guerre, di flagelli, di carestie e di orrori, questi pochi poeti, questi in realtà numerosissimi poeti che si contano per dinastie (e sono imperatori a ministri, generali che corrispondono in versi, mogli ripudiate e funzionari in esilio) si sono trasmessi il fior di giada dell’arte loro, l’hanno elaborata a perfezionata, adorna di sensi e supersensi, di parallelismi concettuali e di acuzie tecniche, hanno compiuto insomma prima di noi tutto il ciclo evolutivo e involutivo ai quali ci han reso familiari, in pochi secoli, le maggiori letterature dei nostri paesi. E argomento unico della sterminata efflorescenza sembra essere, a guardar bene, la poesia stessa come stromento e materia di conservazione e di scambio, e l’amor di poesia come entità sopraindividuale, tradizione a bouteille a la mer trasmessa da iniziato a iniziato. Una poesia dunque, ma in particolarissimo senso, civile, sociale, direi quasi umanitaria. Non vi mancano le nostre, del resto relative, partizioni di genere; ma per lo più la lirica a la satira sembrano affiancarsi liberamente in questa vastissima satura, l’epopea vi è quasi sconosciuta, se non l’epos, e la poesia primitiva, essenzialmente popolare, quella del Libro delle Odi (1753 - 600 a. C.) è bastata a Confucio per sdipanarvi le fila dei suoi precetti morali a delle sue interpretazioni allegoriche. Più tardi, poi, con Chu Yuan e i poeti della dinastia dei Han, pur sempre tra squilli di guerra e clangori di battaglia, il mestiere poetico si raffina e cominciano a prevalere le composizioni a forma strofica che la dinastia del T’ang porterà a grande perfezione. Ma fin da allora è presente quel tono di corrispondenza, di confessione, di epistola che resta, per noi ignari dei testi, il tono fondamentale della poesia cinese. Nulla d’implicito in questa lirica di poeti che furono a un certo punto anche pittori a calligrafi; nessun abisso che divida la poesia colta da quella popolare o rimasta senza attribuzione. Le grandi personalità non vi mancano di certo, e i nomi di Chu Yuan, Pao Chao, Li Po, Tu Fu, Po Chu-i non sono noti soltanto agli specialisti; ma tutto appare come sommerso a livellato da un clima, da un gusto che hanno permesso a un solo periodo, quello del T’ang — fiorito da sei a quattro secoli prima di Dante di lasciarci importanti saggi di oltre duemila poeti. Di mano sconosciuta - per esempio il Poema di Magnolia, Ia fanciulla guerriera che solo dopo molti anni di battaglie, di lotte e di vittorie, dimessa l’armatura, stringe i capelli in un nodo, si tinge la fronte di giallo ed esce incontro ai suoi commilitoni che gridano stupiti: “Per dodici anni abbiamo vissuto insieme — senza saper che Magnolia fosse fanciulla! “ fino alla conclusione:


Il coniglio maschio s’acquatta grattando a terra,
La coniglia si guarda attorno con occhi vaghi;
Ma quando entrambi corrono a fior di terra
Chi sa distinguer tra la coniglia e il coniglio?


E anonimi i “19 vecchi poemetti” della dinastia Han che gareggiano in popolarità con le più illustri composizioni dei maggiori.
Se non vogliamo perderci in una selva, o meglio in un labirintico giardino, limitiamoci a rilevare che questa è in complesso una poesia d’amicizia a di deprecazione. Amicizie virili

(Oh! potessi contrarre la superficie del Mondo
Per ritrovarti a un tratto in piedi al mio fianco)

rare le poesie d’amore e innumerevoli le mormorazioni sul malgoverno e sullo sterminio delle guerre; ma non proprio satire nel senso nostro, anche se accenti oraziani e pariniani ci si affaccino curiosamente alla memoria come possibili termini dl confronto; lamenti, piuttosto, di chi non crede possibile di rifar la gente e di riformare il proprio destino. Lamenti di funzionari trasferiti in sedi lontane; di hobereaux che tentano invano di rientrar nelle grazie dei loro implacabili a pur umanissimi Imperatori, anche essi poeti per disgrazia! e perciò poco adatti a infierire sui melodiosi cigni del loro tempo. Non di rado la rassegnazione e l’ironia sono così fuse che sarebbe inutile cercarvi il punto di trapasso (Il letterato chiamato alle armi di Pao Chao:

Or tardi
Mi accodo alla necessità dei tempi;
Dall’alto di una barricata soggiogo remote tribù.
Lascio la sciarpa, indosso una veste di rinoceronte;
La gonna arrotolata, un arco nero a tracolla.
Prima di cominciare mi sento mancare le forze;
Che sarà mai di me, innanzi che tutto finisca?);

e così nel Po Chu-i di Levata all’alba, che alzatosi di buon’ora per rendere omaggio all’Imperatore ruzzola dal cavallo, s’empie di ghiaccioli la barba e l’incipiente calvizie, e manda un memore pensiero all’amico eremita Chen Chu-shih che si sveglia a giorno avanzato ed è libero e padrone di se stesso...”

Un post su Le Trecento poesie Tang.

orsi in viaggio 24


venerdì 15 giugno 2012

Libro de cocina e Suor Juna Inéz de la Cruz.



Suor Juana Inés de la Cruz (1651–1695).
Artista sconosciuto.

Questa è la poetessa che regala castagne. Una poetessa molto importante per la storia della letteratura messicana.

Qualcuno, collocandolo molto al margine della sua produzione, che era di tutt’altro tipo, le attribuisce anche un libro di cucina. Libro manoscritto nel XVIII secolo nel Convento de San Jerònimo a Ciudad de Mexico, ma che forse riprende ricette di un secolo prima, quando in quel convento visse suor Juana. Ricette, ad esempio, come queste.

Stufato di pollo.
Fa’ un trito di pollo, fallo bollire e insaporiscilo con tutte le spezie. Quindi, disporrai di una casseruola imburrata uno strato di fette di pane tostate, su cui verserai un po’ di vino, e un altro strato di panna spolverata di cannella, chiodi di garofano e pepe. Procederai in questo modo fin quando la casseruola non sarà piena, badando che l’ultimo strato sia di fette di pane. Allora verserai il brodo rimasto, aggiungendo sopra il tutto uno strato di tuorli d’uovo sbattuti.

Dolce di burro e zucchero.
Preparato lo sciroppo con 2 libbre di zucchero, gli si aggiungono 3 bei panetti di burro. Si prendono 4 scudi di pan di Spagna, tagliato a fette, e si alternano sul vassoio uno strato di pan di Spagna e un altro di composto a base di sciroppo, fino a riempirlo. Poi si sbattono i tuorli d’uovo e acqua di fiori d’arancio, si versa il tutto sopra una pentola piena d’acqua calda, finché i tuorli non si saranno rassodati. Si lascia raffreddare e si mettono sopra uva passa, pinoli, mandorle e confettini colorati.

Dolce alla panna.
In parti uguali, panna e uova i cui tuorli siano stati sbattuti con l’aggiunta di zucchero a piacere, sale e cannella pestata. Si imburra una casseruola e vi si versa il composto sbattuto, per poi metterlo sul fuoco finché non si sia asciugato.

Dolce alle noci.
Per un piatto di media grandezza, mezza libra di noci, due scudi di mandorle, uova, ma solo i tuorli. Una volta che sia stato portato a mezza cottura uno sciroppo di due libbre di zucchero, vi si aggiunge tutto il resto ben pestato, mentre le uova vanno aggiunte sbattute quando si sta raggiungendo la prima cottura. Si versa sopra strati di pan di Spagna e si guarnisce con uva passa, mandorle e pinoli.

Il traduttore Angelo Morino ci dice che in realtà le ricette non parlano di pan di Spagna, ma di mamon, un dolce messicano che per altro afferma essere molto simile al pan di Spagna.

Il libro di cucina di Juana Inés de la Cruz. Angelo Morino, Sellerio, Palermo 1999.

Il ritratto di Suor Juana viene da qui.

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Juana dona castagne spinose alla Viceregina

il poemetto introduttivo del Libro de Cocina

una sicura poetessa e un'improbabile cuoca

orsi in viaggio 20



Papavero

Un Orso Batbear
Se sono un SuperOrso
Le mie ragioni!

giovedì 14 giugno 2012

Juana Inéz de la Cruz dona castagne spinose


Una poetessa messicana del XVII secolo dona castagne a un'amica amata.

Lysi, alle tue belle mani
dono castagne spinose,
perchè dove abbondan rose
non posson mancare spine.
Se tendi alla loro asprezza
e con questo il gusto inganni,
perdona la rustichezza
di chi te le regalò;
perdona, ché questo riccio
solo può donar castagne.


Juana Inés de la Cruz (1648-1695)
Versi d'amore e di circostanza. Einaudi, Torino 1995.
Le poesie furono scritte per María Luisa Manrique de Lara y Gonzaga, contessa di Paredes, marchesa di Laguna e viceregina del Messico dal 1680 al 1688.

da qui.

L'immagine è tratta da:
I mai visti. Sorprese di frutta e fiori. Capolavori dai depositi degli Uffizi. Giunti, Firenze 2002

Per una poetessa barocca e la sua viceregina, un dipinto di una pittrice olandese del medesimo secolo.

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altri post su Juana:

Juana dona castagne spinose alla Viceregina

il poemetto introduttivo del Libro de Cocina

una sicura poetessa e un'improbabile cuoca

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Rachel Ruysch
(Amsterdam 1665-1750)
Frutta e insetti, particolare.

orsi in viaggio 19



mercoledì 13 giugno 2012

Juana Inéz de la Cruz. Il poemetto introduttivo del Libro de cocina



Obbedendo, sorella, al mio amor proprio,
ho voluto dar forma alla scrittura
di un Libro di Cucina e, che sciagura,
solo ho mostrato quanto male copio.
Non è servito a porvi zelo proprio
a renderlo un esempio di bravura,
perché, mancando a me genio e cultura,
un sol rigo non c’è che non sia improprio.
Così, sorella, è stato, ma qual passo
potrà mai far chi, troppo imprevidente,
fu travolta da zelo sì smargiasso?
Che può far? Supplicarvi che, indulgente,
perdonando un omaggio tanto crasso,
accogliate il suo pegno irriverente.


Un antico Libro de Cocina, ovvero una raccolta di ricette del XVIII secolo, attribuito con molte incertezze alla poetessa messicana suor Juana Inès de la Cruz, viene preceduto e introdotto da un poemetto a sua volta attribuitole, questo.

E’ un poemetto pieno di retorica umiltà, che rovescia a piene mani improperi sulla scrivente: lei non fa che copiare, e per di più lo fa male; manca di cultura e di genio, ogni rigo che scrive è improprio, nello scrivere è spinta dall’amor proprio e travolta da smargiasso zelo, e alla fine non ha prodotto che un crasso, irriverente omaggio, che con questo poemetto consegna a un’anonima “sorella” del convento di San Geronimo. Certamente la retorica dell’umiltà è nota e praticata anche da Juana – ricordiamo il poemetto in cui dona castagne a un’amica, dove si paragona a un riccio, animaletto spinoso - ma qui è quasi grottesca nella sua accentuazione.

Confrontiamo questa umiltà con il fatto che Juana Inès fu nella sua epoca definita “fenice del Messico”, “decima musa”, “unica poetessa americana”. Fu autrice dei primi testi di letteratura coloniale spagnola che arrivarono in Spagna e vi si imposero.

La sua storia fu alquanto particolare e drammatica: bimba e fanciulla prodigio, letterata e studiosa nonostante un’epoca che non prevedeva per niente donne con questa identità, rifugiatasi in convento per studiare in pace, finì la sua vita tra pentimenti di aver tanto osato e aggressioni di vescovi. Può darsi fosse per questa fine drammatica, accompagnata dalla dispersione della sua biblioteca e dalla pubblica rinuncia agli studi, ma dopo morta venne rapidamente dimenticata. Un secolo dopo, quando il Libro de Cocina venne scritto, forse copiando un testo di un secolo prima, chissà se si ricordavano di lei solo nel suo convento. Certo che nel poemetto tutto quel fustigare l’arroganza di chi lo scriveva sembra alquanto irriverente verso Juana, la superba scrittrice che i vescovi avevano dovuto piegare. E che qui si presenta come una copiatrice di ricette scritte alla bell’e meglio, di cui ho dato un piccolo saggio in un altro post.

Per sottolineare il contrasto tra l’umile libercolo di ricette e la fama della poetessa, la presento raffigurata in un ritratto molto celebrativo, che per quanto ne so è meno conosciuto dei suoi soliti nei quali appare nel proprio studio tra i libri, e dove appare abbigliata di sete e trapunta di perle come una Madonna barocca, con accluso bambinello in mano. Tutto questo fasto ricamato mi ricorda uno dei più bei luoghi di Madrid, il convento delle Descalzas Real, che rigurgita ancora oggi di questo mondo conventuale femminile e barocco, dove tra dolci, giocattoli e santi (anche belli e bellissimi nel loro essere raffigurati in legno dipinto dai magnifici scultori spagnoli) il confine è lieve e incerto.

Il poemetto è stato trodotto da Angelo Morino.
Angelo Morino, Il libro di cucina di Juana Inés de la Cruz, Sellerio, Palermo 2000.


Il dipinto viene da qui.

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Juana dona castagne spinose alla Viceregina


una sicura poetessa e un'improbabile cuoca

orsi in viaggio 18


martedì 12 giugno 2012

Juana Inés de la Cruz. Una sicura poetessa e un'improbabile cuoca



Molti di noi – io per esempio – di lei non ne sanno un accidenti, poiché spingere lo sguardo entro foschie lontane come le letterature latino americane, peggio ancora se femminili e barocche, è cosa veramente avventurosa e stravagante. Tuttavia, san web ci dimostra, se cerchiamo notizie di tal Juana Inés de la Cruz, che la rete pullula di celebrazioni e rimembranze di questa donna, famosa – si scopre – per ricchi e molteplici talenti e pateticità romantica e drammatica di vita, tutte cose che non guastano quando si vuole passare ai posteri.

A me per altro Juana era già arrivata per un’altra via, un libretto dono dell’amico GianniM che ancora ringrazio.

Angelo Morino, Il libro di cucina di Juana Inés de la Cruz, Sellerio, Palermo 2000.

Si tratta di un libretto Sellerio – e chi sennò – che presenta una strana mescolanza tra due anime.

Da un lato c’è la trascrizione del XVII secolo di un libro di cucina che forse è del secolo precedente. E’ un libro di un convento messicano, anzi più che un libro un insieme di appunti, che riporta ricette buttate giù alla buona, dove si intuiscono macchie di burro e patacche di rosso d’uovo. Le ricette grondano di dolci speziati e profumati, di mandorle e cannella, di confetti colorati, e portano con sé, nonostante lo stile scarno e approssimativo delle note scritte in fretta, puro pro memoria anche un po’ sgrammaticato, l’irresistibile aura fascinosa della cucina di convento femminile, dove tanti dolci si tramandarono, covarono e nacquero e tante tradizioni si ritesserono attraversando spregiudicatamente religioni e culture diverse.

Dall’altro c’è un piccolo saggio su Juana, che in quello stesso convento fu monaca, scritto con lo stile della noterella affettuosa dal traduttore Angelo Morino, professore di letteratura latino americana.

Nel saggio Morino si trova con due oggetti, le ricette da un lato, la vita di Juana e le sue opere dall’altro, che si incrociano alquanto pretestuosamente, e si adopera a metterli insieme.



Qui non si capirebbe più una parola, però, se non si fa breve premessa su Juana. Bambina illegittima e insieme bambina prodigio, che prestissimo a da autodidatta (l’unico modo allora concepibile per una femmina) si appropria di una quantità di saperi a vasto raggio, fino a diventare una novella Caterina d’Alessandria. Nota nella sua epoca, non solo in Messico, per scienza, brillantezza di ingegno e virtuosismo appassionato nel versificare, viene introdotta da intima e pupilla di viceregine nella corte dei vicerè. Come Caterina, tuttavia, è a rischio elevatissimo di diventare santa mediante taglio della testa per via delle diffidenze e rabbie e invidie che tale eccezionale femminile percorso suscitò. Dopo un periodo privilegiato in cui scambiava doni con le viceregine, e con una in particolare con cui si amò così ardentemente da mettere in imbarazzo tutti (forse più oggi che allora, però), tornate le sue protettrici in Spagna, venne presa nelle grinfie di vescovi che non la mollarono fino a che, dopo strenua, brillante a tutt’oggi ammiratissima letteraria difesa, lei non capitolò su tutta la linea, firmando la lettera del suo pentimento con il suo stesso sangue e disperdendo la ricca biblioteca – una delle più cospicue del suo paese – per venderla a favore dei poveri. L’accusa era di scrivere di cose profane, cosa nella quale la nostra per altro tanto si distinse da essere considerata il maggior poeta barocco del Messico e uno dei massimi di tutte le epoche per quel paese.



Ancora non ho detto, però, tutto ciò che serve. Torniamo alle vicende della sua vita. Juana non volendo sposarsi e nella speranza di trovare un rifugio tranquillo, a sedici anni andò in convento a farsi suora e lì visse fino alla morte, per ventisette anni. Un convento confortevole e pieno di chiacchiere, come ce n’erano allora. Ogni monaca aveva una casetta con tutti i servizi e volendo portava con sé, come Juana fece, una schiava. C’era inoltre un vasto personale di servizio in comune che moltiplicava le presenze e faceva di quei conventi cittadelle femminili piene di visite, di conversazioni e di ricevimenti a base di dolci. Lei un po’ si scocciava perché a quanto pare voleva starsene sempre a scrivere e studiare, tuttavia ci stette bene, credo, finché ci furono le sue viceregine con cui farsi le visite scambiare doni. Le viceregine non so cosa le mandassero, ma lei mandava rose appena colte e qualche volta anche torte, per esempio di noci. Tutto, ovviamente, accompagnato da scintillanti poesie.

Una volta Juana scrisse che le donne non possono fare che filosofie di cucina, ma disse anche che se Aristotele avesse cucinato, avrebbe scritto di più.

Questa battuta era rivolta a un uomo nemico. Si tratta del cattivissimo vescovo che, andate via le viceregine amiche sue, si era buttato su di lei con quell’accusa di trasgressione che in seguito avrà grande efficacia, portandola alla dichiarazione di pentimento e al silenzio. Qui però Juana ancora si difende. E sfida il vescovo a pensare spregiudicatamente (massimo peccato per un vescovo). Mettendo insieme Aristotele il sommo e la bassa pratica di cucina affidata alle donne, proponeva al vescovo – quanto è barocco tutto ciò – che la congiunzione trasgressiva e sorprendente avrebbe giovato a rendere più frizzante il pensiero dell’eccelso filosofo, più produttivo il suo calamo. C’era anche l’allusione non tanto velata che un contributo di umile donnità (lei) proposta provocatoriamente come odorosa di fritti, intrisa di cucina, alla superba mascolinità (Aristotele, ma anche il vescovo) avrebbe certo giovato a quest’ultima.



Vediamo se dopo tutto questo premettere posso tornare al libretto di Sellerio dove Morino tenta di tenere insieme ricette e poetessa.

Che materiale si trova davanti Morino? Una certa tradizione dice che il libro di ricette fu scritto da Juana, c’è pure un poemetto attribuito a lei per introdurlo e la sua firma a concluderlo. Ma l’epoca del manoscritto non è quella di Juana, è stato scritto cento anni dopo. Le ricette sono veramente pochissima cosa se considerate nella loro scrittura, e lo stesso poemetto zoppica, come mai gli autografi della nostra. Soprattutto Juana era non solo raffinatissima scrittrice, ma, lo deduciamo da ciò che lo stesso Morino ci dice, massimamente snob. Ce la vedete a scribacchiare trasandate notarelle di farina e di uova senza nemmeno pensare alla grammatica?

Marino aveva due strade, a quanto posso capire.

Una era quella di fare un’analisi del perché nasce una tradizione che rifila le ricettuzze a Juana. Un’ulteriore mortificazione dell’altezzoso spirito? Una manovra degli eredi dell’invidioso vescovo? Avrebbe avuto un bel romanzo da fare, e forse una ricerca negli archivi. Però, si chiude questa via dicendo che dopo cento anni dalla morte, quando viene scritto il libro di ricette, Juana era dimenticata; chi poteva avercela con lei?

L’altra era quella di sostenere la possibilità di attribuire il libro di ricette alla coltissima suora. Questa è la strada che Marino sceglie. Ci dice che forse, giocando con le consorelle, rilassandosi in qualche pomeriggio di ozio, Juana potrebbe aver copiato le ricette, così, per scherzo. Aggiunge che è vero che sono mal scritte, ma che alla fin fine la nostra era autodidatta; qualche erroraccio, qualche sgrammaticatura le poteva pur scappare. Non credo che questo commento sarebbe piaciuto a Juana.

Ci sono altri due post su Juana:

Suor Juana Inés de la Cruz. Il poemetto introduttivo al Libro de Cocina.

Juana Inés de la Cruz dona castagne spinose.



La prima immagine di Juana viene da abm-enterprises.net.

La seconda da members.tripod.com.

Un paio di biografie:

wikipedia

i grandi eccentrici

orsi in viaggio 17