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giovedì 17 aprile 2014
sabato 9 giugno 2012
Hester Stanophe, la regina di Palmira.

Non poche le lady che si perdono in oriente.
Vi dico alla spicciolata ciò che ho appreso di una di loro, pallida spilungona dalla fervida fantasia, che abbandonati i salotti londinesi e divelta ogni nota radice, se ne va, stella cometa controcorrente, verso est; approdata in quel di Siria, finirà con il dissolversi, polvere che torna alla polvere, sulle montagne del Libano.
Coloro che ne narrano la storia oscillano tra il descrivere le avventure scriteriate di una lady parecchio dissennata, per altro in linea con una certa rispettata e nota tradizione inglese di eccentricità, e la celebrazione di una donna indipendente e coraggiosa che rompe con i limiti che il sesso e l'epoca le imponevano.
Lady Hester Stanhope nasce nel 1776, l'anno della dichiarazione di indipendenza degli Stati Uniti d'America, da una aristocratica famiglia, già ravvivata dalla bizzarria di un padre che fa il giacobino in contemporanea con la rivoluzione francese e scalpella via le armi dal suo stemma, per esserne la figlia più stravagante.
Molto presto orfana di madre, con un padre freddo e risposato con una fashion victim, se la squaglia appena può, a ventiquattro anni, e va ad abitare per qualche anno nella casa più prestigiosa di Londra con lo zio primo ministro, l'illustre William Pitt il giovane, uno dei grandi uomini della storia di Inghilterra, facendo una brillante vita di società - volatile parentesi nella sua storia - e iniziando a farsi conoscere come eccentrica lingua lunga. La nipote, anni dopo, quando si tratterà di commentare una zia diventata famosa, la descriverà, con un diluvio di aggettivi uno più pericoloso dell'altro, come autoritaria, impetuosa, testarda, indomita, vanitosa, e soprattutto sicura di essere nata per comandare.
Nel 1818, dopo la morte di Pitt, inizia un viaggio dal quale non tornerà più: in poco più di due anni percorre Gibilterra, Malta, le isole ioniche, il Peloponneso, Atene, Costantinopoli, Rodi, Egitto, Siria, Palestina, Libano, con puntate su tappe all'epoca davvero assai remote come Palmira o Baalbeck.
In Grecia, scontro di prime donne: incontra un giovane Byron, che la trova noiosa. A Costantinopoli passa qualche mese, inaugurando, con l'assistere trasgressivamente al proibitissimo corteo del sutano che andava in moschea, quell'apparente ignoramento delle convenzioni locali che si rivelerà formidabile intuito mediatico soprattutto presso beduini e drusi, le popolazioni che rappresentavono un potere eccentrico in quei territori. Quindi decide di voler vedere con i suoi occhi ciò che ha visto Napoleone, l'acerrimo nemico dello zio, e si avvia verso l'Egitto. Qui si verifica un episodio di iniziazione alla rottura e al cambiamento radicali: nei pressi di Rodi una furiosa tempesta la costringe e rifugiarsi dalla nave in pericolo su un nudo, ventoso isolotto senza riparo né cibo. Viene salvata, e approda a Rodi con il guardaroba perso e il vestito distrutto. Cambia gli abiti con quelli di un gentlemen turco e non se li leva più.
Orlando ante litteram, da donna, uomo; da occidentale, orientale; ermafrodito rinato dalle ceneri di un abito regency che diventa brache alla turca e turbante.
Al Cairo si fa ricevere dal pasha indossando un paio di larghi e drappeggiati pantaloni di velluto porpora molto fittamente ricamati d'oro, un morbido turbante di cachemire avvolto sui capelli, un corpetto di broccato di Damasco, una pelliccia magnifica, e una fusciacca che le stringe alla cintola pistole e coltelli. Molto alta, un naso notevole, luminosa nel suo pallore spettrale, capelli neri, penetranti occhi grigioazzurri, di lei si ammette che non è proprio bella, ma si dice che è senz'altro affascinante. Fa certamente la sua figura. Più tardi completerà questo ritratto mettendosi a fumare il chibouk, una lunghissima pipa turca le cui faville, disseminate in giro nel corso dei fluviali e incessanti monologhi con cui irretiva e stordiva i suoi visitatori, riempiranno di buchi i copriletti e tappeti nella casa dalle molte stanze che si farà costruire su una deserta montagna del Libano.
Intorno a lei appaiono figure note dell'avventura in oriente dell'inizio del secolo XIX: Johann Burckhardt, l'esploratore svizzero che nel 1812 avventurosamente riscopre per il mondo occidentale la perduta città di Petra, la incontra a Nazareth. Inizia un tour delle città del prossimo oriente, preceduta dalla sua fama. Quando sta per arrivare a Damasco viene avvertita che in quella città, la più tradizionalista, non è opportuno che una donna arrivi vestita da uomo e senza velo. Lei decide di prendere il toro per le corna, come sempre per altro, e fa il suo ingresso a mezzogiorno senza modificare né abbigliamento né modi. L'accoglienza di questa visione imprevedibile è imprevedibilmente trionfale ed entusiasta. La gente si rovescia per strada, il bazar si ferma, la festeggiano come un fenomeno.
E' lì che decide di avventurarsi fino a Palmira, meta che all'epoca era stata raggiunta solo da pochissimi spericolati esploratori occidentali, rifiutando ogni altra scorta che non sia quella dei rischiosi beduini. Se vogliamo sapere come si vestiva in viaggio, eccolo: un abito scarlatto ricamato d'oro e, quando cavalcava, un burnus bianco. Con lei c'è anche un'infelice dama di compagnia costretta a mettere i pantaloni, ma rifiutatasi di cavalcare anche lei come un uomo: scarafaggi, topi, naufragi, fame, tutto ciò passi, ma quello no. C'è anche un medico personale, che diventerà poi, dopo ben trenta anni passati con lei, il suo biografo.
I beduini, ammirati da ogni cosa, abbigliamento, portamento spavaldo, capacità di andare spericolatamente a cavallo, pazzia, la adottano e la scortano, in una settimana di viaggio nel deserto, fino a Plamira, dove viene acclamata loro regina – si sono intanto radunate molte tribù - mentre attraversa in trionfo la via colonnata. Sulle mensole delle colonne giovani beduine sventolanti palme hanno preso il posto delle perdute statue di bronzo. Hester ha 37 anni, 40 cammelli, 20 cavalieri, 2 dragomanni, 1 mamelucco, 2 cuochi, 1 medico di scorta, e centinaia di beduini che la acclamano.
Questo è il momento di gloria di Hester, che si vive come una novella Zenobia, la regina di Palmira che diede filo da torcere ai romani. Dopo una "tournée" in Siria, accolta come un gran personaggio tra l'umano e il soprannaturale, inizia a delinearsi la successiva fase, mistica, stralunata, dissipatrice della nostra lady.
Nel 1813 si sistema in una casa vasta, labirintica e solitaria dalle parti dei monti in Libano, alta su valli brulle e panoramica quanto mai, un ex monastero circondato di olivi, e lì passerà gli ultimi ventuno anni. I primi sono ancora regali, tra l'allestimento di un ritiro fiabesco e orientalista pieno di servitori e non privo di un giardino fiorito e magnifico come solo un inglese sa fare pur che gli diano quattro sassi da coltivare, il ricevimento di ospiti occidentali che fanno della sua casa una meta deputata per respirare un'aria Arabian Nights (tra loro, Lamartine, che come ci ricorda Edward Said, la chiamerà la Circe del deserto), e molti intrighi con i maggiorenti del luogo che la vedono conquistare un posto di potere tribale grazie anche a grandi elargizioni di danaro. Gli ultimi anni precipiteranno sempre più verso debiti e stravaganza.
Di questi ultimi venti anni fanno parte la dedizione all'astrologia e alle divinazioni che prevedono un suo ingresso in Gerusalemme come novella regina dei luoghi, il soprannome La Sibilla del Libano e un'avventura che la fa addebitare come primo archeologo in Terra Santa. Càpita infatti tra le sue mani un manoscritto medioevale, scritto in italiano, che parla del luogo dove si trova un ricco tesoro, sepolto dai cristiani lungo le coste del Libano. Il manoscritto pare sia stato copiato di nascosto da un monaco in una polverosa biblioteca di un convento sperso in qualche parte della Siria, la cui collocazione sembra non sia mai stata rivelata da lady Hester. Lei contratta un permesso di scavo con il governo ottomano, e poiché il tesoro sarebbe stato del governo, indebitato quanto basta, arriva subito un alto ufficiale ben conosciuto nei luoghi e che finora era stato visto giungere in Libano solo per confiscare beni o arrestare qualcuno, e già la lady viene immaginata in catene, ma quello porta la licenza per lo scavo. Si fanno così degli scassi sul sito della antichissima Ascalon, abbandonato da più di seicento anni, nella cui diruta moschea dovrebbe stare il tesoro. Non si trova oro, ma invece risorge dal vecchio suolo un colosso di pietra acefalo, forse un re divinizzato di quei perduti passati. La lady non ci pensa su due volte e con il piglio decisionista che la distingue ordina, sotto gli occhi esterrefatti e sconvolti del fidato medico che poi narrerà l’evento, che la statua venga frantumata per essere poi sprofondata in mare.
Questo fatto le fa meritare l’abominio dei successivi archeologi, poiché anche in un’epoca di archeologia primitiva come quella della lady, l’episodio si distingue per capacità distruttiva. Mentre la lady andava scavando in Palestina, i vari maggiorenti locali e parecchi avventurieri, ma anche i paesani del posto, tutti ritenevano che dalle vecchie pietre si dovesse ricavare un qualche vantaggio, dal rifarsi la casa al vendere una statua a coloro che andavano sviluppando la mania delle antichità. Uno dei pettegolezzi che commenta la distruzione della disgraziata statua dice che Hester lo fece per proteggere la sua reputazione dall’essere accusata – pare lo dicesse lei stessa – di fare gli scavi per prendersi la statua o peggio darla ai suoi non amati compatrioti invece che per donare un tesoro alla Sublime Porta. Un altro dice che spaccasse la statua per trovarvi il tesoro all’interno. A noi le due spiegazioni sembrano entrambe far acqua, non solo la seconda, d’epoca e adatta a menti veramente fantastiche, ma anche la prima che oggi, vista la smania delle “restituzioni” di antichità, trova qualche sostenitore di tipo perverso, del tipo meglio distruggere un bene archeologico che appropriarsene (mentre io sono sempre del parere della madre interpellata da re Salomone).
Lady Hester muore in massima povertà e ancora incessantemente parlando nel 1839, e viene sepolta nel giardino: gli ultimi e soli suoi averi è quanto ha indosso; il resto verrà preso, fino all'ultimo sgabello zoppo o vassoio ammaccato, immediatamente dopo la sua morte dai pochi servitori rimasti, per altro non più pagati da un pezzo. La casa è stata distrutta dall'abbandono e dai terremoti.
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La vita poco convenzionale della lady ha fatto sì che non abbia l'immancabile ritratto che ogni aristocratico regency ha. Girano di lei alcune immagini, tutte presunte o fatte sulla scia del suo mito, senza modella davanti agli occhi. Tra queste ultime la più seducente senza ombra di dubbio è quella di Hester - bisquit, una statuina di porcellana in turbante, a cavallo di un cammello e scortata da un "arabo" che sarebbe poi il suo famoso medico personale. La statuina testimonia la popolarità della leggenda di Hester in epoca vittoriana, e la sua fioritura sotto forma di porcellana dello Staffordshire.
Quanto ho scritto ha il solo fondamento di letture web; se volete sentir parlare di lei:
saudiaramcoworld.com
kirstenellis.net da qui viene anche l'immagine della statuina.
restoring reputation
giovedì 7 giugno 2012
Siria. Palmira. Wood, Dawkins, Bouverie, Borra. Una combriccola di dotti dilettanti in medio oriente.

Nel 1753 esce a Londra e Parigi un magnifico volume di incisioni sulla città di Palmira, Ruins of Palmira, che entro un'attenzione sempre più viva per le scoperte archeologiche, avrà una grande risonanza, certamente in Inghilterra, ma anche in tutta Europa, dove promuoverà con il neoclassicismo l'ennesima rinascita del mondo classico. Il volume è firmato da un certo Robert Wood, un dilettante di talento che ha studiato lettere classiche e che acquisirà grande fama grazie alla pubblicazione. Wood tornava da un viaggio in medio oriente e da una visita alla città che aquisisce valore di scoperta grazie alle incisioni di eccezionale precisione e bellezza e alla loro diffusione. Pochi anni dopo, nel 1757, uscirà anche Ruins of Balbec, di cui non ci occuperemo, tutti presi come siamo da Palmira.
In realtà Wood non era l'unico viaggiatore, nè il solo che aveva reso possibile la complessa pubblicazione; tuttavia una serie di circostanze fa sì che sia l'unico a firmare l'opera. Tutt'oggi, se si cercano informazioni su questo libro, ci si imbatte certamente in Wood, poi forse in Dawkins, quindi in un tale Borra, e per ultimo, scavando un po', in un certo Bouverie. Tenendo presente la cultura dell'epoca, scopriamo che pur avendo tutti contribuito in vario modo al prodotto, Dawkins era troppo ricco per firmarlo (ma non per pagare la costosa pubblicazione), Botta pagato (per i disegni, mica per qualcosa di marginale) e quindi inesistente al momento di presentarsi in società, Bouverie morto in viaggio (e non a caso è il più difficile da recuperare anche oggi).
Rimettiamo dunque insieme la combriccola così come l'ho ricostruita dopo diverse passeggiate web. Robert Wood era un gentlemen di nascita modesta che voleva allargare il Grand Tour ad oriente; nel 1949 incontra James Dawkins, un giovane assai ricco, e John Bouverie, un ardente dilettante coollezionista di disegni, che in qualche fonte compare come il finanziatore del viaggio. Decidono di partire insieme, e la nave "Matilda", che arriva da Londra, li raccoglie a Napoli. La nave è piena di libri: autori classici, testi di storia e di viaggio, trattati sull'antichità; inoltre, strumenti matematici. Infine, c'è un disegnatore, un italiano o per meglio dire un piemontese, architetto, Giovanni Battista Borra, che a volte merita una citazione dalle fonti, altre no. Una piccola nota, per capire i nostri viaggiatori e misurare la distanza di tempo che ci separa da loro (e non sto dicendo con questo che oggi ne sappiamo di più, ma segnalo quanto profondamente la vediamo in un altro modo): Wood dubitava della storia che Palmira fosse stata costruita dove Davide sconfisse Golia, ma credeva a quella che fosse stata fondata da Salomone, distrutta da Nabucodonosor e ricostruita dai romani.
La nave se ne va per i mari della Grecia raccogliendo qua e là iscrizioni e statue; infine arriva in Siria e i nostri si dirigono a Palmira e Baalbek. Avanzano con una carovana di circa 200 uomini e altrettanti animali, in gran parte militari al soldo di un governatore locale, cooptati per coprire il rischio di attacchi da parte di predoni (qui vi ricordo, per farvi valutare la differenza tra questi personaggi, che quando Lady Hester Stanhope farà lo stesso tragitto, assumerà i predoni stessi come guide e protettori). Il lavoro, tra sabbie brucianti, andrà a spron battuto. Bouverie muore in viaggio, nel settembre del 1750. Nel 1751 tornano ad Atene.
Una volta a casa, è Wood, come dicevo, che pubblica le loro scoperte.
Guardate ora il quadro che propongo per illustrare la vicenda: vi sono rappresentati Dawkins e Wood (i due "che contano"), mentre arrivano a Palmira con la loro inturbantata scorta ottomana; osservate i loro bianchi paludamenti: sono vestiti da antichi romani (!). I romani tornano nella loro città, ne riprendono possesso.

Il compito di Borra era quello di descrivere i ritrovamenti sia con ampie vedute dei siti che con tavole analitiche, compiti l'uno e l'altro magnificamente assolti. Al suo ritorno a Londra, il disegnatore piemontese traduce i disegni in tavole per la pubblicazione.











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Il quadro, di Gavin Hamilton, che è stato esposto alla Tate Gallery in occasione della mostra sull'orientalismo, è stato dipinto nel 1758 ed è conservato nella National Gallery of Scotland.
L'incisione tratta dal quadro, da qui
Le incisioni di Palmira, da Michael Jenninigs Antique Maps & Prints
La nota sulle credenze di Wood sulla fondazione di Palmira, da Architectural theory, Volume 1, Harry Francis Mallgrave, 2005.
Un commento sulla spedizione, in princeton.edu
Siria. Palmira, Giovanni Battista Borra: incisioni.




Anche nella minima riproduzione permessa da san web (comunque, cliccateci su e si ingrandiranno) le bellissime incisioni del piemontese Borra, che tornava dal viaggio di riscoperta della città di Palmira, fatto insieme a una composita combriccola di giovani gentiluomini inglesi, archeologi dilettanti, nel 1750, fanno capire perchè ebbero all'epoca della loro comparsa una potente forza di suggestione, e insieme a quelle di altri onirici artisti come Piranesi, rilanciarono la potenza di fascinazione del mondo antico. Mondo antico che nel suo neoclassico candore pareva voler essere creolo, senza impurità entro un sangue che voleva essere del puro blu della Grecia, e invece era ibridato di ogni cultura e sapore e colore, anche estremi ed esotici come quelli di Palmira.
Avvicino così le incisioni di Borra al Casta Painting, quella pittura coloniale spagnola che si avventurò in una rappresentazione delle infinite sfumature dei volti date dal mescolare Africa, Nuove Americhe, vecchia Europa.
L'architetto Borra rimase otto anni a Londra, ed ebbe importanti commissioni dove potè esprimere le suggestioni che Palmira gli aveva trasmesso, ad esempio in maestosi soffitti a volta dove mescolò Pantheon e Tempio del Sole. Nel blog Zenobia: Empress of the East trovate una nota su questo.
Images taken from Robert Wood's The Ruins of Palmyra, otherwise Tadmor, in the desart (London, 1753) digitally reproduced by Lance Jenott, courtesy of the University of Washington Libraries, Special Collections.
Da depts.washington.edu
Ammirate la suggestiva potenza di quel diluvio di pietroni che si accavallano, di quella distesa di immensi sassi. In questo link trovate altre incisioni di Borra.
giovedì 2 febbraio 2012
Sydney Parkinson, l'artista che seguì Cook nel suo viaggio verso l'Australia incognita
Girovagando tra i pittori marginali ma non per questo meno importanti - forse sarebbe meglio dire eccentrici - ci si imbatte in una fresca faccetta vispa di un giovinetto del XVII secolo, vivace e pallido come un ermellino; questo ermellino ha una storia per troppo tempo ignorata che merita di essere conosciuta.
Vede la luce tra le nevi della Scozia e viene sepolto, ahimè troppo presto, nelle calde acque del mar di Giava quando ha appena ventisei anni. Nel breve arco della sua tenera vita produrrà molto industriosamente e si suppone anche lietamente una massa grande di bei disegni e schizzi che ritraggono parti del mondo fino allora del tutto sconosciute all’occidente, che riscoperti dopo duecento anni dalla sua morte lo trarranno, come si dice, dall’oblio. Duecento anni dovranno infatti passare prima che i disegni vedano la luce in una pubblicazione.
Sidney Parkinson nasce in un giorno imprecisato del 1745 – ma lo immaginiamo bianco di cadenti e fitti fiocchi di neve - a Edimburgo dalla famiglia di un birraio di religione quacchera (quelli che professavano l'amicizia e la pace, ma che non si toglievano il capello nemmeno davanti a un re). Dopo una buona educazione di base - sappiamo che tra i suoi libri ci furono Omero, Virgilio, Spenser, Chaucer, Pope, e così che la sua mente era debitamente piena di letteratura, cosa che certo lo aiutò a sognare - venne avviato al commercio dei tessuti; al tempo stesso studiò disegno per arricchire la sua formazione e le sue opportunità. Presto divenne chiaro che era alquanto bravo nel disegnare fiori e piante; proseguì così per questa via.
Per migliorare la sua formazione e le sue chances, nel 1766 lasciò Edimburgo e andò a lavorare presso The Vineyard, il vivaio di un altro quacchero, James Lee, a sud di Londra, per insegnare disegno alla giovanissima figlia di questi, che poi diventerà una brava artista. Avendo Lee scritto un libro che aveva avuto una grande
diffusione poiché illustrava, primo in Inghilterra, le nuovissime classificazioni di Linneo, il vivaio era diventato un centro di attrazione per dilettanti e studiosi; ciò causò l’incontro tra un giovane Josep Banks (che poi, grazie alla lunga vita, alla ricca dieta, alla vivace intelligenza e alle buone conoscenze diventerà baronetto, un’autorità nel campo botanico, il presidente della Royal Society per 42 anni, e una delle persone in vista della Londra vittoriana) e il più giovane ancora Parkinson, la cui vita resterà ben più oscura per molto tempo, per iniziare però a brillare oggi di una luce non sfacciata ma dolcemente brillante.
Viste le capacità di Parkinson, Banks ne fece rapidamente acquisire i talenti al Kew Garden, il reale giardino botanico, quello che poi Banks e il suo amico Giorgio III, detto il folle per la sua pazzia ma anche il giardiniere per la sua passione botanica, tanto cureranno e ingrandiranno. Ma Parkinson era lì da appena un anno quando il medesimo Banks gli propose di unirsi come disegnatore di specie botaniche alla spedizione della
nave Endeavour che stava per salpare per il primo dei grandi viaggi di scoperta capitanati da Cook. E poiché Banks non era tipo da fare le cose a metà, ingaggiò anche un altro artista, Alexander Buchan, per i paesaggi e per una visione più generale di ciò che si sarebbe scoperto nella spedizione. Haimé, il nostro giovane ermellino ben sapeva che il viaggio era forse senza ritorno; fece testamento e scrisse: "God knows I may never return".
Obiettivo principale del viaggio era quello di osservare il transito di Venere, cioè il passaggio del pianeta davanti al sole. La precisa osservazione del transito, visto da diversi punti della superficie terrestre, avrebbe consentito agli astronomi di calcolare, tra l'altro, la distanza tra la terra e il sole. L'ultimo
transito c'era stato nel 1761 - e nonostante gli sforzi di 120 osservatori da nove nazioni, i risultati erano stati scarsi - il successivo non ci sarebbe stato che nel 1874. Questa volta era necessario fare meglio. Un viaggio così impegnativo d’altro canto non poteva avere un solo obiettivo. Nonostante il Pacifico fosse stato
percorso per due secoli, era ancora largamente sconosciuto. Ci si aspettava di scoprire nuove terre e prenderne possesso. Soprattutto si voleva esplorare la Terra Australis Incognita, la cui esistenza era
provata ma di cui si aveva ancora vaghissima idea. Il primo ad approdarvi in modo documentato era stato un capitano della Compagnia Olandese delle Indie Orientali nel 1605, più di cento anni prima, ma
aveva confuso il nuovo continente dal quale malissimo accolto dagli indigeni si era rapidamente ritirato, con una propaggine di Giava; ciò produsse per molto tempo mappe olandesi in cui si perpetuava l’errore.
Fu Cook a disegnare accurate nuove mappe di una buona porzione di costa dell’Australia – bravissimo in quest’arte come in tutte le abilità marinare – a piantarci su una bandiera inglese e a promuovere in seguito
l’uso delle nuove terre come colonia penale, introducendole così nella storia.
La presenza dell'astronomo Green aveva comportato una riorganizzazione degli spazi della nave - lunga 33 metri e con 85 marinai a bordo senza contare Cook - ma mai quanto l'arrivo di Banks e del suo seguito, non meno di nove persone. Il venticinquenne Joseph Banks era bello, ricco, intelligente, fornito delle relazioni che
contano e già membro della Royal Society. Per lui il viaggio era una occasione emozionante per approfondire i suoi studi di storia naturale, in particolare di botanica, e aveva convinto l'Ammiragliato ad andare con Cook a proprie spese. Aveva preteso di essere accompagnato da quattro servitori, un segretario, due artisti, un botanico, due cani e una grande quantità di bagaglio. Alla fine però tutto questo disturbo ebbe una grande resa nella conoscenza delle realtà naturali ed etnografiche e costituì un presupposto per condurre con sé non solo degli scienziati ma anche degli artisti pure in futuri viaggi di ricognizione.
Il lavoro fu pressante e intenso fin da subito: sia Joseph Banks che Daniel Solander, il secondo botanico, raccoglievano tutto ciò che veniva su con le reti, animali e alghe, e passavano ogni cosa a Parkinson perché la disegnasse. Parkinson teneva testa all’impegno senza lagnarsene e presto fu ben voluto da tutti, ufficiali e
ciurma.
L’arrivo dell’ Endeavour in Sud America buttò nello sconforto il vicerè Don Antonio de Moura, che non poteva credere che il re di Inghilterra mandasse da quelle parti una nave equipaggiata di tutto punto solo per una spedizione scientifica. Cook dovette dedicarsi a queste diffidenze e a fare opera di diplomazia, mentre la nave attendeva nel porto senza poter fare i necessari rifornimenti.
Banks intanto fremeva nell’inattività – era giovane e sotto il suo naso si dispiegavano, a poca distanza, la ricca flora e fauna del Brasile - e ideò un piano alquanto pericoloso, visto che il viceré aveva piazzato
una sentinella sulla nave per tenere i marinai sotto sorveglianza costante. Come racconta Parkinson nel suo diario, scesa la notte, avendo acquisito una conoscenza sufficiente della costa, spesso si calavano appesi a una corda dalla finestra della cabina in una barca e poi, dopo essersi lasciati silenziosamente portare dalla marea, una volta fuori dall’udito remavano fino a una parte poco frequentata della riva e andavano a terra per esplorare un po’ l’interno. È improbabile che Cook sarebbe stato contento se lo avesse saputo, in
quanto tali iniziative potevano spezzare la corda già tesa dei suoi rapporticon il vicerè. Tuttavia i clandestini riuscirono a svolgere le loro missioni di raccolta in diverse occasioni, mentre Cook finalmente riusciva a negoziare il rifornimento della nave.
Lasciato il Brasile l’Endeavour continua la sua missione con Sydney Parkinson che nel frattempo, occupando la cabina in cui gli ufficiali consumano i pasti, circondato di esemplari da tutte le parti, usando un tavolo che oscilla con le onde, lavora instancabilmente ai suoi disegni. Il numero di campioni raccolti ancora non lo sopraffà e le opere di questo periodo vengono finite e colorate da lui stesso. Questo non sarebbe accaduto con i disegni che avrebbe fatto poi nel Sud del Pacifico e in Australia.
Entro la metà di aprile 1769 l'Endeavour raggiunge in tutta sicurezza le coste di Tahiti. È qui che si imbattono nell’l'isola di Otaheite la cui baia è disegnata in uno dei disegni che mostro, ma soprattutto vanno loro incontro nugoli di abitanti del posto, da loro chiamati indiani, a bordo delle loro strettissime canoe scolpite, carichi di oggetti e frutta con gentile aria di scambio e dono. A Thaiti l’astronomo lavorava alacremente sia per registrare il passaggio di Venere che, ricordiamolo, era stata la causa prima del viaggio, che per recuperare l‘attrezzatura che aveva scervellatamente consegnato alla popolazione locale perché la
trasportassero a terra, confondendo un indigeno assai attratto da quegli interessanti oggetti con un obbediente facchino, mentre i due amici botanici, Joseph Banks e Daniel Solander, dopo un paio di settimane di
lavoro erano un po’ in stasi perché avevano quasi finito di trovare nuove piante. Parkinson invece si dava molto da fare a completare e colorare i suoi disegni in una situazione relativamente tranquilla, non
ci fossero stati fittissimi nugoli di voraci mosche che coprivano fino a oscurarle le piante che andava ritraendo e che mangiavano di lena i suoi colori.
Ma per Parkinson il peggio doveva venire con la morte di Alexander Buchan il paesaggista, che ammalato di una grave forma di epilessia, muore in seguito a un attacco. I due artisti si erano uniti in una solida amicizia, e ora Parkinson avrebbe dovuto andare avanti, senza tempo per le lacrime, lavorando per due.
Lo scalo successivo fu la Nuova Zelanda, dove pure ci furono poche scoperte botaniche, cosa che diede modo a Parkinson di fare diversi disegni dettagliati della popolazione Maori, in cui riuscì bene come con
i disegni di piante.
Quando la spedizione arrivò in Australia, il cambiamento non avrebbe potuto essere più radicale: persone, animali, piante, tutto appariva come un mondo mai visto prima. Banks e Solander si danno a una intensa raccolta di specie botaniche e di qualche esemplare di mammiferi, uccelli e pesci, consegnando tutto a Parkinson, che ogni giorno viene inondato di oggetti e di lavoro, potendo eseguire solo degli schizzi con quegli appunti sui colori che sarebbero poi stati necessari per completare i disegni in seguito. Fa tutto da solo, tranne un piccolo aiuto da parte del segretario di Banks, Herman Spvring che se non ho capito male era più ermellino di lui, uno svedese.
Trascorsi diversi mesi al largo della costa orientale dell'Australia, cominciò il lungo viaggio verso casa. Nessuno aveva sofferto di scorbuto e vi era stata solo una morte, un record notevole per un lungo viaggio intorno al mondo. Ma dopo Batavia, oggi Giacarta, quattro membri dell'equipaggio vennero colpiti dalle febbri e morirono. Il viaggio verso Capo Buona Speranza fu un incubo, imperversarono molte malattie, la tubercolosi,
la dissenteria, la malaria. Il 26 gennaio 1771 Sydney Parkinson morì di dissenteria e fu sepolto in mare (e insieme a lui, e molti altri, morirono anche l’astronomo e Herman Spvring). Aveva prodotto un notevole corpus di disegni, 280 finiti, colorati e botanicamente accurati e oltre 900 schizzi.
Un giornalista allora alla moda, tal Hawkesworth, aveva acquisito i diritti esclusivi sulla storia di uno dei più grandi viaggi per mare, e i tre volumi che ne derivano gliela fanno raccontare in prima persona, oscillando tra Banks e Cook senza che si capisca chi sta parlando.Vengono presi interi brani dai diari di Cook, di Banks e di diversi altri, tra cui Sydney Parkinson. Nonostante la grande quantità di informazioni, Hawkesworth riesce a riempire il suo lavoro di inesattezze sconcertanti, che di per sé renderebbero insopportabile e risibile il suo lavoro, ma a queste si aggiunge lo sprezzo verso Parkinson e gli altri, il che attizza il fuoco di una controversia che nel frattempo si era accesa tra Stanfield Parkinson, il fratello di Sydney, e Joseph Banks. Al ritorno dell’Endeavour nel luglio del 1771, infatti, iniziò una lunga lotta per
il possesso del diario, dei dipinti e dei bozzetti di Parkinson. Bancks voleva i disegni, Hawkesworth il diario, Stanfield Parkinson i soldi. Alla fine Bancks riesce a garantirsi i disegni per £ 500, con un
accomodamento che comprendeva lo stipendio ancora non pagato di Sydney. La controversia non sarebbe finita, ma qui la storia ci dice che il fratello di Sydney si ritrovò internato dopo poco tempo in un manicomio, e ciò la fa cessare. Dopo questo viaggio Banks diventa la stella di Londra.
Banks provvide a organizzare un lavoro di completamento, coloritura e successivamente di traduzione in lastre di rame per l’incisione del corpus di disegni e schizzi lasciato da Parkinson. Il lavoro di completamento dei disegni e pittura fu affidato a James e John Frederick Miller, John Cleveley jun. e Frederick Polydore Nodder,
che ne eseguì la maggior parte. Quindi un gruppo di diciotto incisori fu ingaggiato per le lastre.
Qui inzia un "giallo" ancora oggi e probabilmente per sempre irrisolto: perché Banks non pubblicò questo enorme, costoso e importantissimo lavoro? Chi dice che furono i tanti impegni che assunse, chi che non era un vero uomo di scienza ma un dilettante e un gentiluomo, chi che la pubblicazione non era essenziale poiché il materiale era liberamente consultabile nella sua casa di Londra, chi che era impoverito con la guerra di indipendenza americana e che non ne poteva più di spendere enormi somme su quei disegni; insomma troppe spiegazioni, quindi nessuna.
Nel1778 oltre 500 lastre erano state incise ed erano pronte per la pubblicazione, ma per un motivo o un altro, solo nel 1900 il lavoro è stato finalmente pubblicato da James Britten nel suo
'Illustrations of the Botany of Captain Cook's Voyage Round World in HMS Endeavour in 1768-1771 by Sir Joseph Banks, Daniel Solander: with a determination by James Britten'. Questo titolo lungo e pretenzioso non menziona Sydney Parkinson, con un trascuratezza piuttosto notevole. A questo indirizzo, il libro digitalizzato: botanicus.org
Ma la prima edizione veramente completa del lavoro, con le incisioni colorate secondo le tecniche dell'epoca di Parkinson, avviene solo attraverso i 35 volumi del Florilegium Banks, pubblicati dal 1980 al 1990 in 34 parti dall’editore Alecto Historical e dal British Museum. Della costosissima e preziosa edizione ne sono state messe in vendita solo 100 copie, ma il Florilegium è stato digitalizzato dal Museo di Storia Naturale.
Il ficus parkinsonii è così chiamato in suo onore, come pure una procellaria, la procellaria
parkinsoni, e oggi Sydney Parkinson sta finalmente ricevendo quel credito che merita ampiamente ed è ricordato come uno dei grandi artisti della botanica.
Tutta la vicenda l'ho tratta da i seguenti siti e da un libro:
plantexplorers.com
www.nhm.ac.uk
www.nzetc.org
Early New Zealand Botanical Art
Tony Rice, Voyages of Discovery : Three Centuries of Natural History Exploration, 1999
Di seguito, una tavola tratta dal libro - non completa per via del mio scanner - come pure da lì viene il ritratto (autoritratto, molto probabilmente) di Parkinson.
Successivamente, alcuni disegni di Parkinson con note che provengono dai siti da cui li ho presi, e qualche altra notizia sulla vicenda che vi ho raccontanto.
Three paddles from New Zealand. From A Collection of Drawings made in the Countries visited by Captain Cook in his First Voyage. 1768-1771.
Pen, wash & watercolour, October 1769, British Library
A New Zealand war canoe; one of the women holds a preserved head. From A Collection of Drawings made in the Countries visited by Captain Cook in his First Voyage. 1768-1771
Pen & wash, March-April 1770, British Library
Da captcook-ne.co.uk

The head of a New Zealand chief, by Sydney Parkinson, 1784. Alexander Turnbull Library.
This is an early head and shoulders portrait of a Māori man. His hair is in a topknot (putiki) and adorned with feathers and a wooden comb (heru). He has a full facial moko, and two greenstone adornments; an earring and a hei tiki around his neck. There is also a flax cloak around his shoulders. The artist who drew this was Sydney Parkinson. Parkinson accompanied Joseph Banks on Captain Cook’s first Pacific voyage. He was one of two official artists and his principal role was to record (through drawing and painting) the hundreds of botanical and animal specimens collected by Banks and Daniel Solander.
A New Zealand warrior in his proper dress, compleatly armed according to their manner. A standingportrait of a Maori man, holding a tewhatewha in his outstretched left hand. He has a topknot hairstyle, and feathers in his hair, a fine dogskin cloak in a chequered pattern, a patu tucked into his belt and bone ornaments at his neck.
Maori war canoe with elaborately carved prow and stern, three standing figures, one seated and eighteen rowers.
The head of a native of Otaheite, with the face curiously tataow'd; and the wry manner of defying their enemies as practis'd by the people of that the neighbouring islands.
Head and shoulders portraits of two Tahitian men, both wearing woven garments. The man on the left has tattoo showing on his right jaw and lower cheek; the one on the right has his mouth drawn down to one side and up on the other, so that it appears diagonal.
Da mp.natlib.govt.nz
Da citrinitas.com
Villaggio della terra del Fuoco
Matavia Bay, Otaheite
Da sl.nsw.gov.au
Captain James Cook (1728 - 1779) Most famous for his three voyages of Pacific exploration, Cook was one of very few men from the lower classes to rise to senior rank in the Royal Navy. He was killed in the Hawaiian islands during his third Pacific voyage with HMS Resolution and HMS Discovery. |
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Sir Joseph Banks (1743-1820) Independently wealthy, Banks studied at Oxford and travelled to North America as a naturalist in 1766. Banks became very influential after the voyage - he was a trustee of the British Museum, ran the botanic garden at Kew, and was President of the Royal Sociey from 1778 until his death. It was on Banks' suggestion that the first Australian penal colony was founded at Botany Bay. |
Daniel Solander (1733 - 1782) A Swedish pupil of Linnaeus, Solander came to Britain in 1760, where he was employed as an assistant at the British Musuem. He was engaged by Banks to sail with the Endeavour, and after the voyage became Banks' assistant and librarian, even declining a professorship at St Petersburg university to remain in London. |
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Sydney Parkinson (1745 - 1771 ) Born in Scotland, Parkinson came to London in 1766 and was soon after engaged by Banks to work at the Royal Botanic Gardens, Kew, where he worked for a year before before joining the Endeavour. One of two on board artists, neither of whom survived the voyage, Parkinson died at sea shortly after leaving Java. |
The voyage of HMS Endeavour (1768-1771) was the first devoted exclusively to scientific discovery. This site presents most of the botanical drawings and engravings prepared by artist Sydney Parkinson before his untimely death at sea, and by other artists back in England working from Parkinson's initial sketches.
Da nhm.ac.uk
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